Home Economia Inflazione USA: il mercato obbligazionario statunitense si sta sbagliando di nuovo?

Inflazione USA: il mercato obbligazionario statunitense si sta sbagliando di nuovo?

Jeffrey Cleveland, Chief Economist di Payden & Rygel
Jeffrey Cleveland, Chief Economist di Payden & Rygel
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  • Il dato sull’inflazione USA di marzo è risultato leggermente più basso delle aspettative, ma l’indicatore ‘core’ è comunque salito dello 0,4% su base mensile e del 5,6% su base annua, il che rende probabili nuovi rialzi dei tassi da parte della Fed a maggio e forse anche a giugno
  • Anche il CPI mediano della Fed di Cleveland ha registrato una variazione dello 0,4% mese su mese a marzo e un aumento del 7,1% su base annua: la Fed ha quindi ancora molto lavoro da fare per contenere l’inflazione sottostante
  • I responsabili delle politiche monetarie ritengono l’inflazione ancora “inaccettabilmente alta”: sono quindi disposti a sopportare un rallentamento della crescita e una recessione, se questo significa tornare prima alla stabilità dei prezzi
  • Entro la fine dell’anno l’inflazione sarà probabilmente ancora troppo elevata per giustificare i tagli dei tassi attualmente prezzati per il 2023 dal mercato obbligazionario, che, alla luce della crisi bancaria, sta già scommettendo su un rapido rallentamento della crescita e dell’inflazione

A cura di Jeffrey Cleveland, Chief Economist di Payden & Rygel


Milano, 14 aprile 2023 – Mercoledì 12 aprile, dopo la pubblicazione dell’indice dei prezzi al consumo USA e dei verbali della riunione del FOMC di marzo, i tassi statunitensi hanno registrato un’impennata e gli investitori hanno rilanciato la scommessa di una Fed prossima a terminare il ciclo di rialzi dei tassi. Occorre tuttavia precisare che l’inflazione (CPI) ‘headline’ di marzo è sì risultata leggermente più debole del previsto, ma l’indicatore ‘core’ (escluse le componenti alimentare ed energetica) è comunque salito dello 0,4% su base mensile e del 5,6% su base annua: alla luce di questi dati, a nostro avviso, è quindi probabile che la Fed effettui nuovi rialzi a maggio e, forse, anche a giugno.

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Riteniamo inoltre possibile che alla fine del 2023 i tassi di interesse overnight siano ben al di sopra dei livelli impliciti nei futures obbligazionari. Questo perché, in primo luogo, alcune categorie di beni i cui prezzi sono scesi a marzo probabilmente risaliranno nel corso dell’anno: ad esempio, i prezzi dei veicoli usati sono scesi a marzo secondo i dati del BLS, ma dai numeri delle vendite emerge come siano aumentati a partire dall’autunno. Potrebbe ripetersi lo stesso schema del 2022, quando il CPI core sembrò rallentare a marzo per poi risalire nei mesi primaverili ed estivi, con conseguenti scosse sul mercato obbligazionario. In secondo luogo, anche se l’inflazione core si dovesse mantenere a un tasso mensile dello 0,4% per il resto del 2023, finiremmo l’anno con una lettura del 5% circa su base annua, decisamente troppo alta per la Fed. Le variazioni mensili dovrebbero infatti decelerare in modo molto più deciso (ad esempio dello 0,1% o dello 0,2%). Da ultimo, anche il CPI mediano della Fed di Cleveland, a nostro avviso il miglior indicatore dell’inflazione ‘core’, ha registrato una variazione dello 0,4% mese su mese a marzo e, cosa peggiore, è aumentato del 7,1% su base annua: la Fed ha quindi ancora molto lavoro da fare per contenere l’inflazione sottostante.

In effetti, i verbali del FOMC di marzo pubblicati mercoledì 12 aprile hanno evidenziato come i responsabili delle politiche monetarie ritengano l’inflazione ancora “inaccettabilmente alta”, una valutazione che dubitiamo sia cambiata dopo la pubblicazione del CPI di marzo. Da notare come la parola “banche” sia apparsa 46 volte nei verbali della riunione di marzo, contro le sole due volte di febbraio, segnalando la chiara preoccupazione dei policymaker che, in assenza della crisi bancaria, “avrebbero considerato appropriato un aumento di 50 punti base dell’intervallo target”. La crisi bancaria presenta sicuramente rischi negativi per la crescita (gli economisti della Fed hanno previsto “una lieve recessione a partire dalla fine dell’anno”, secondo i verbali), ma sembra troppo presto per valutarne l’entità con certezza. Inoltre, i policymaker sono favorevoli a un rallentamento della crescita, con la maggior parte di essi probabilmente disposta a sopportare una recessione, se questo significa tornare prima alla stabilità dei prezzi.

Dunque, in base agli ultimi dati, entro la fine dell’anno l’inflazione sarà probabilmente ancora troppo elevata per giustificare i tagli dei tassi attualmente prezzati per il 2023 dal mercato obbligazionario, che alla luce della crisi bancaria, sta scommettendo su un rapido rallentamento della crescita e dell’inflazione.

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