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Con oltre 135 miliardi di dollari in gestione, Payden & Rygel è leader nella gestione del risparmio gestito e annovera tra i suoi clienti banche centrali, fondi pensione, imprese di assicurazione, università, banche private e fondazioni di varia natura.  Società di gestione indipendente e non quotata, Payden & Rygel ha sede a Los Angeles con uffici a Boston e hub di gestione a Londra e a Milano.

  • I consumatori negli Usa stanno davvero esaurendo i risparmi?

    I consumatori negli Usa stanno davvero esaurendo i risparmi?

    ·         Poiché i risparmi personali equivalgono al reddito disponibile al netto delle spese personali, è fisiologico che, con la normalizzazione dei modelli di spesa nel post-pandemia, i consumatori statunitensi siano tornati a spendere e la quota di risparmio personale si sia ridotta

    ·         A novembre la quota di risparmio personale negli Usa si aggirava attorno agli 840 miliardi di dollari, cioè il 4,1% del reddito disponibile, un dato in linea con la media registrata durante l’espansione economica del 2010

    ·         L’ammontare del debito contratto dai consumatori Usa resta invece intorno al 21% del reddito disponibile, in linea con la media degli ultimi vent’anni, mentre in termini di percentuale del Pil è sceso al 73% nel secondo trimestre del 2023 (rispetto al picco storico del 100% toccato nel 2007)

    ·         Attualmente, il reddito disponibile dei consumatori Usa sta crescendo a un ritmo annuo del 7% e in uno scenario di “soft landing” come quello che si prospetta per il 2024 il reddito disponibile reale dovrebbe progressivamente aumentare con il rallentamento dell’inflazione

    ·         Tasso di risparmio e recessione sono correlati, anche se in modo controintuitivo: durante i periodi di recessione, quando i consumatori tagliano le spese, il tasso di risparmio tende ad aumentare e viceversa

    ·         In conclusione, un calo del tasso di risparmio non è necessariamente da interpretare come un segnale di rallentamento economico, anzi spesso indica un’economia resiliente e un mercato del lavoro dinamico

    A cura di Jeffrey Cleveland, Chief Economist di Payden & Rygel

    Milano, 2 febbraio 2024 – Nel corso del 2023, il tasso di risparmio personale dei consumatori statunitensi è sceso dal 5,3% di maggio al 4,2% di agosto, fino a toccare il 4,1% di novembre: un calo che sta attirando l’attenzione degli investitori a livello globale, preoccupati che l’esaurirsi dei risparmi dei consumatori Usa possa portare al rallentamento dell’economia a stelle e strisce. Dal canto nostro, a dispetto di alcuni recenti titoli di giornali, riteniamo che i timori sullo stato di salute dei risparmi Usa siano eccessivi e che il bilancio economico dei consumatori americani potrebbe essere migliore del previsto.

    La vera storia dietro al “tasso di risparmio” Usa

    Secondo la definizione del Bureau of Economic Analysis (BEA), i risparmi personali equivalgono al reddito disponibile al netto delle spese personali; in altre parole, ciò che resta del reddito dopo il pagamento di tasse, interessi netti e consumi personali. Dunque, per ottenere il “tasso di risparmio” su scala nazionale, invece di sommare i “fondi per le emergenze” stanziati dalle singole famiglie, occorrerà sottrarre dal loro reddito complessivo la spesa aggregata, su base mensile. Date queste premesse, è chiaro che il tasso di risparmio tenderà ad aumentare in presenza di un aumento del reddito e/o di un taglio delle spese personali, come accaduto durante la pandemia da Covid-19, con le misure di sostegno al reddito varate dal governo Usa e con il crollo dei consumi durante i lockdown. Archiviata l’emergenza Covid, i consumatori statunitensi sono tornati a spendere e, di conseguenza, la quota di risparmio personale si è ridotta: una naturale conseguenza della normalizzazione dei modelli di spesa nel post-pandemia.

    Dati alla mano, in base alla definizione del BEA, nel novembre 2023 la quota di risparmio personale dei consumatori statunitensi si aggirava attorno agli 840 miliardi di dollari, cioè il 4,1% del reddito disponibile, un dato tutt’altro che allarmante, in linea con la media registrata durante l’espansione economica del 2010.

    Inoltre, dalla somma di depositi correnti e quote di fondi del mercato monetario detenuti dalle famiglie americane, si ottengono, come risultato, ben 16 trilioni di dollari di risparmi, una cifra che, seppur in calo rispetto ai 17,4 trilioni toccati nel 2022, è ancora superiore rispetto a quanto registrato in qualsiasi altro periodo tra il 1989 e il 2020. Occorre poi precisare che, anche qualora una famiglia esaurisse i propri risparmi, avrebbe comunque a disposizione altre risorse come, ad esempio, il patrimonio netto, che include conti correnti, conti deposito e investimenti finanziari. Non è poco, considerando che il patrimonio netto complessivo delle famiglie statunitensi nel terzo trimestre del 2023 ha raggiunto i 142 trilioni di dollari (il picco era stato toccato con i 143 trilioni del primo trimestre 2022).

    Chi si trova a fronteggiare una crisi di liquidità, poi, può sempre optare per un prestito: i consumatori Usa hanno ancora un certo margine di indebitamento, considerando che nel periodo ottobre-dicembre 2023il totale del debito contratto attraverso carte di credito era pari al 5,1% del reddito disponibile, un valore inferiore rispetto ai livelli pre-pandemia. 

    Anche tenendo conto degli student loan e dei prestiti per auto, l’ammontare del debito dei consumatori Usa resta intorno al 21% del reddito disponibile, in linea con la media degli ultimi vent’anni, mentre in termini di percentuale del Pil è sceso al 73% nel secondo trimestre del 2023 (contro il picco storico del 100% raggiunto nel 4Q 2007). Il costo totale del debito, in termini di percentuale di reddito disponibile, era pari al 9,8% nel secondo trimestre 2023, in linea con la media del 2010. La resilienza delle famiglie di fronte ai rialzi dei tassi è merito anche dei prestiti a tasso fisso (come mutui e student loan) che hanno consentito loro di bloccare i tassi per periodi più lunghi. Solo il 21% dell’esposizione complessiva al debito delle famiglie americane riguarda prestiti sensibili ai rialzi dei tassi, come quelli delle carte di credito e i finanziamenti per l’acquisto di auto.

    Per quanto riguarda il tasso di morosità per la mancata copertura delle carte di credito, se si sposta il focus sull’andamento complessivo degli ultimi trimestri, la situazione non è così allarmante come spesso viene dipinta dai media: nonostante il numero di prestiti tramite carte di credito sia aumentato in assoluto, la percentuale di ritardi nei pagamenti nel 3Q 2023 si è attestata al 2,98%, un livello non distante dalla media del periodo 2011-2023 (2,4%) e nettamente al di sotto della media del periodo 2000-2007 (4,3%).

    A trainare i consumi Usa non sono i risparmi, ma l’aumento del reddito

    Se i salari sono soddisfacenti, a trainare i consumi non sono i risparmi, ma il reddito dei lavoratori e, attualmente, il reddito disponibile dei consumatori Usa sta crescendo a un ritmo annuo del 7% (dati a novembre 2023). Inoltre, in uno scenario di “soft landing”, il reddito disponibile reale (cioè corretto per l’inflazione) dei consumatori dovrebbe progressivamente aumentare con il rallentamento dell’inflazione.

    Resta aperta la questione della distribuzione del reddito: negli Stati Uniti il 50% del reddito personale totale fa capo a un 20% di lavoratori, responsabili di solo il 36% della spesa totale. Quindi, esclusi i più “ricchi”, il quadro complessivo di reddito e spesa personale potrebbe non essere così roseo. Tuttavia, se si allargano le maglie di ciò che definiamo “risparmio”, come spiegato sopra, il consumatore medio detiene ancora liquidità e quote di fondi del mercato monetario vicine ai massimi storici, quindi escludere il 10% delle famiglie più “ricche” modificherebbe solo leggermente il quadro. Inoltre, nel 2Q 2023 il 90% dei consumatori che stanno alla base della “piramide” della ricchezza totale hanno aumentato la loro esposizione ai fondi di mercato monetario, un altro segnale di capacità di spesa.

    Con questo, non vogliamo certo affermare che gli investitori non dovrebbero preoccuparsi dei risparmi. Tasso di risparmio e recessione sono correlati, anche se in modo controintuitivo: durante i periodi di recessione, quando i consumatori tagliano le spese, il tasso di risparmio tende ad aumentare; viceversa, durante i periodi di espansione economica, quando aumentano le spese e la fiducia dei consumatori nei propri redditi futuri, il tasso di risparmio tende a scendere. In Cina, dove, secondo le stime del National Bureau of Statistics, a partire dalla Crisi Finanziaria Globale il tasso di risparmio si è attestato intorno al 34% del reddito disponibile, il fatto che i consumatori risparmino circa un terzo del loro reddito rappresenta, secondo gli analisti, un freno per la spesa e la crescita del Paese. 

    In conclusione, un calo del tasso di risparmio non è necessariamente da interpretare come un segnale di rallentamento economico, anzi spesso indica un’economia resiliente e un mercato del lavoro dinamico, laddove un rapido aumento del tasso di risparmio spesso indica un raffreddamento della crescita. Attenzione, quindi, a chi parla di consumatori “ai ferri corti”: sarà il reddito, non i risparmi, a decidere il destino dei consumatori Usa.

  • Rally del debito emergente e prospettive 2024 

    Rally del debito emergente e prospettive 2024 

    • Per i mercati sviluppati, il nuovo anno è iniziato all’insegna del dibattito sulle tempistiche e sulle modalità dell’allentamento della stretta monetaria, mentre le banche centrali dei mercati emergenti stanno già giocandosi la carta del taglio dei tassi, anche se con modalità diverse
    • Sul fronte della crescita, i mercati emergenti si sono per ora mostrati resilienti, anche se con alcune differenze sostanziali tra regioni e con l’importante eccezione della Cina; sul fronte inflazione, gli EM stanno sperimentando una flessione generale del livello dei prezzi, più decisa per l’inflazione complessiva e quella legata ai beni di consumo, più graduale per l’inflazione core e quella legata ai servizi
    • In Argentina il neopresidente Milei ha da poco avviato il suo ambizioso programma di riforme, che prevede una manovra fiscale, una significativa deregolamentazione e lo stop alla monetizzazione del deficit da parte della banca centrale
    • In Cile, per la seconda volta nel giro di due anni, gli elettori hanno respinto l’adozione di una nuova Costituzione e un terzo tentativo di riforma ad oggi sembra improbabile, almeno nel prossimo futuro
    • In Guatemala una sentenza della Corte Costituzionale ha stabilito che il presidente eletto Arévalo assumesse finalmente l’incarico, dopo cinque mesi di transizione, il 14 gennaio 2024, nonostante i tentativi di emarginazione politica da parte della Procura Generale

    A cura di Kristin Ceva, responsabile strategie paesi emergenti di Payden & Rygel

    Milano, 23 gennaio 2024 – In dicembre abbiamo assistito al rally del debito emergente, con il reddito fisso che ha risposto positivamente al calo dell’inflazione e alle previsioni di un allentamento della politica monetaria da parte delle principali banche centrali nel 2024. Il credito sovrano e societario EM in valuta forte ha visto ridurre i rendimenti rispetto ai Treasury Usa, contribuendo al generale aumento dei ritorni sui prezzi, e anche i mercati del debito emergente in valuta locale hanno vissuto una congiuntura favorevole, sull’onda del calo dei rendimenti del debito locale e dell’apprezzamento delle singole valute rispetto al dollaro Usa. 

    Con l’inflazione in calo verso i livelli target, le banche centrali dei mercati sviluppati sembrano più a loro agio a discutere di un compromesso tra stretta monetaria e rallentamento della crescita; il nuovo anno è così iniziato all’insegna del dibattito sulle tempistiche e sulla portata dell’allentamento della stretta monetaria. Le banche centrali dei mercati emergenti, invece, stanno per lo più già giocandosi la carta del taglio dei tassi, anche se con modalità diverse, per via del mix di inflazione, crescita e rischi esterni che caratterizza ogni paese in modo differente. Il consenso indica un 2024 caratterizzato da un rallentamento della crescita a livello globale, ma per ora la crescita dei mercati emergenti si è mostrata resiliente, anche se con alcune differenze sostanziali tra regioni e paesi. La Cina, ad esempio, si trova ad affrontare sfide complesse a causa delle difficoltà in cui versa il settore immobiliare e per mitigare i potenziali rischi ha dovuto varare una serie di misure ad hoc. Sul fronte inflazione, la maggior parte dei paesi emergenti sta sperimentando una flessione del livello dei prezzi, più decisa per l’inflazione complessiva e quella legata ai beni di consumo, più graduale per l’inflazione core e quella legata ai servizi. La maggior parte delle banche centrali EM, al momento, ha messo in pausa i rialzi dei tassi, se non ha già intrapreso i primi tagli, sebbene resti alto il livello di attenzione a fattori esterni come i tassi d’interesse Usa, i flussi di capitali e i prezzi di energia e generi alimentari. In particolare, la banca centrale cilena ha optato per una riduzione dei tassi di interesse di 75 punti base, dopo il più prudente taglio di 50 punti base deciso in ottobre, mentre le banche centrali di Colombia e Repubblica Ceca hanno optato per tagli più contenuti, di 25 punti base.

    A nostro avviso, le principali economie emergenti e le loro società hanno dato prova di saper affrontare le conseguenze della stretta monetaria, anche se occorrerà continuare a monitorare da vicino i fattori di rischio globali e specifici di ciascun paese, tra cui le nuove eventuali fiammate inflattive, l’ingresso in recessione di alcuni mercati sviluppati e i rischi politici che un anno di elezioni come il 2024 porta inevitabilmente con sé. Investire nel debito emergente presenta diversi benefici in termini di diversificazione di portafoglio e rendimenti elevati, con importanti ritorni nel lungo termine. Da non dimenticare neanche altri fattori positivi come il rapporto tra domanda e offerta e l’indebolimento del dollaro Usa, che giocano a favore del debito EM, anche se un approccio selettivo resta sempre preferibile.

    Il punto sugli sviluppi economico-politici di Argentina, Cile e Guatemala

    Abbiamo cercato di approfondire i recenti sviluppi economici e politici di alcuni dei principali paesi emergenti. Cominciamo dall’Argentina, dove il neopresidente Javier Milei ha da poco avviato il suo ambizioso programma di riforme, tra cui spiccano la svalutazione del tasso di cambio, la liberalizzazione delle importazioni, il blocco delle assunzioni nel settore pubblico e dei nuovi progetti infrastrutturali, la riduzione del numero dei ministri e dei sussidi statali. In parallelo, nel tentativo di compensare le pressioni inflazionistiche che verosimilmente si verranno a creare nei primi mesi delle riforme, è stato varato un consistente programma di welfare sociale. Nel complesso, il piano di adeguamento economico di Milei prevede una decisa manovra fiscale, una significativa deregolamentazione e lo stop alla monetizzazione del deficit da parte della banca centrale. È facile prevedere che il mandato del nuovo presidente non sarà privo di dibattiti e controversie, dal momento che sia il Congresso che i sindacati hanno già manifestato il loro dissenso nei confronti della sua agenda politico-economica.

    In Cile, per la seconda volta nel giro di due anni, gli elettori hanno respinto l’adozione di una nuova Costituzione. Il processo di riforma costituzionale, scaturito dalle imponenti proteste popolari del 2019, non ha ancora portato a una revisione del documento elaborato nel corso della dittatura militare di Pinochet, nonostante gli oltre quattro anni di tentativi portati avanti sia dalla Destra che dalla Sinistra. L’affluenza alle urne è stata elevata (84%) e l’esito questa volta è stato più combattuto rispetto alla precedente tornata elettorale (con il 55,8% di voti contrari rispetto al 61,9% del settembre 2022). Ad oggi, la sfiducia nel processo costituente insieme alla polarizzazione politica che lo ha contraddistinto nelle sue varie fasi, rende improbabile un terzo tentativo di riforma, almeno nel prossimo futuro. Le implicazioni per il presidente cileno Gabriel Boric, il cui governo ha già dovuto lottare contro gli scarsi livelli di popolarità, sembrano per ora contenute.

    In Guatemala una sentenza della Corte Costituzionale ha stabilito che il presidente eletto Bernardo Arévalo assumesse finalmente l’incarico, dopo cinque mesi di transizione, il 14 gennaio 2024. Dopo la schiacciante vittoria di Arévalo alle elezioni dello scorso agosto, infatti, la Procura Generale guatemalteca insieme ad altri esponenti del partito al potere avevano lungamente tentato di invalidare il risultato elettorale, forse per timore che l’agenda anticorruzione del neoeletto si scontrasse con interessi consolidati. Ad ogni modo, nonostante il worst case scenario sia stato scongiurato, sono ancora in corso altri tentativi di emarginazione politica di Arévalo e per il nuovo governo il contesto resta sfidante.

  • Outlook 2024: 10 previsioni macroeconomiche per il nuovo anno che potrebbero rivelarsi errate

    Outlook 2024: 10 previsioni macroeconomiche per il nuovo anno che potrebbero rivelarsi errate

    A cura di Jeffrey Cleveland, Chief Economist di Payden & Rygel

    Milano, 9 gennaio 2024 – Nonostante la maggior parte delle persone dia per scontato di essere sostanzialmente nel giusto in ogni ambito della vita, a partire dalle convinzioni politiche e religiose, la realtà dei fatti è che, al contrario di quanto siamo inconsciamente portati a credere, non siamo onniscienti, anzi sbagliamo piuttosto spesso.

    Una conferma arriva dai mercati finanziari: se lo scorso anno di questi tempi ci si fosse interrogati sull’eventualità di una recessione economica negli Stati Uniti nel corso del 2023, due terzi degli operatori finanziari si sarebbero dichiarati a favore di questa ipotesi. Allo stesso modo, il mercato obbligazionario era convinto che la Fed avrebbe portato i tassi d’interesse al picco del 5% per poi effettuare 2 o 3 tagli già entro la fine dell’anno e molti investitori e analisti sostenevano che il raffreddamento della dinamica inflattiva sarebbe dovuto necessariamente passare da un significativo aumento del tasso di disoccupazione.

    Il fatto che nessuno di questi scenari si sia poi concretamente verificato dovrebbe mettere in guardia gli investitori dalla tentazione di voler predire a tutti i costi le sorti dell’economia globale. Per questo, in Payden cerchiamo di non prestare troppa attenzione alle previsioni macroeconomiche, ma, attraverso il metodo scientifico, puntiamo a raccogliere quante più evidenze possibili per poi confutare le ipotesi macro che influenzano l’andamento dei mercati. Il nostro è un approccio critico alla macroeconomia e ad attirare la nostra attenzione sono soprattutto le view unanimemente condivise dagli economisti, le cosiddette “verità assolute”.

    Ecco, quindi, 10 previsioni diffuse sui mercati che nel 2024, alla prova dei fatti, potrebbero rivelarsi errate:

    1. “Nel 2024 una recessione sarà inevitabile”: nonostante la grande smentita del 2023, l’ipotesi di una recessione non ha smesso di riscuotere successo tra gli operatori dei mercati, che le attribuiscono una probabilità del 50% per l’anno in corso, pur con le dovute cautele (il cd “atterraggio morbido”). In Payden riteniamo che le probabilità di una recessione per il 2024 siano più vicine al 12,5%, mentre ci attendiamo una crescita del Pil in linea o addirittura leggermente superiore al trend attuale, sull’onda dei consumi statunitensi che restano resilienti.
    1. “I risparmi dei consumatori Usa si stanno esaurendo!”: pensiamo che le voci sulle ristrettezze finanziarie in cui verserebbe il consumatore medio Usa siano esagerate. È vero che nel post-pandemia il tasso di risparmio personale è diminuito a seguito della normalizzazione dei modelli di spesa, ma, nel complesso, il consumatore americano dispone ancora di trilioni di risparmi. Inoltre, è bene evidenziare come la crescita economica Usa sia trainata dall’aumento del reddito (non da quello dei risparmi), che ha continuato a mostrarsi robusto fino al novembre 2023. 
    1. “La politica fiscale degli Stati Uniti sta alimentando la crescita”: gli scettici che si rifiutano di riconoscere il benessere del consumatore americano medio tendono ad attribuire alla politica fiscale il ruolo di motore di una crescita economica a loro avviso insostenibile nel medio termine. Al contrario, la spesa fiscale è stata responsabile di un modesto incremento della crescita complessiva negli ultimi quattro trimestri (+0,3%), mentre è la spesa dei consumatori ad aver contribuito a oltre la metà della crescita del PIL nel 2023. L’impatto fiscale netto, una misura che aggrega l’effetto della spesa governativa a livello federale, statale e locale, è stato negativo per gli ultimi tre trimestri (vedi Figura 1). Inoltre, è importante considerare che, in anni di elezioni politiche come il 2024, la spesa pubblica tende solitamente ad aumentare, non a ridursi. 
    1. “Il governo Usa non sarà in grado di finanziare un debito pubblico così imponente”: è vero che nel corso del 2023 il deficit di bilancio degli Stati Uniti si è ampliato, soprattutto a causa del calo delle entrate seguito al crollo del mercato azionario del 2022. Tuttavia, la domanda di titoli di Stato da parte degli investitori nazionali e globali è rimasta sostenuta e l’emissione del Treasury Bill ha coperto gran parte del deficit del 2023, sull’onda dell’entusiasmo di famiglie e imprese statunitensi. Al momento, meno del 3% del PIL Usa è destinato al finanziamento del debito, un impegno che ci sembra piuttosto gestibile nel breve termine.
    1. “L’inflazione persistente potrebbe spingere la Fed verso una politica monetaria eccessivamente restrittiva e quindi verso una recessione”: questa prospettiva ci sembrava più plausibile verso la metà del 2023, con il Pil Usa in crescita del +5%, mentre oggi vediamo con maggiore ottimismo l’ipotesi di un “atterraggio morbido”. In ottobre la media mobile a sei mesi dell’indice PCE Core ha raggiunto il target della Fed dello 0,2%, con il tasso di disoccupazione vicino ai minimi del ciclo. Ovviamente, crediamo che la Fed dovrà aspettare ancora qualche mese per poter dichiarare la vittoria sull’inflazione. Riguardo all’ipotesi che il recente cambio di rotta della banca centrale statunitense sia dovuto a motivi politici (nello specifico le elezioni presidenziali di quest’anno), suggeriamo agli investitori di dare un’occhiata ai dati sul PCE Core degli ultimi sei mesi (Figura 2).

    6.       “I mercati del lavoro globali mostrano già i primi segnali di debolezza. BCE, BoE e BoC non tarderanno a seguire le orme della Fed, optando per un taglio dei tassi”: ad eccezione di Regno Unito e Canada, la maggior parte dei Paesi sviluppati sta affrontando le sfide di inflazione e mercato del lavoro meglio di quanto si creda. Ad esempio, l’inflazione di base del Canada si colloca appena al di fuori della fascia target dell’1-3%. Di conseguenza, è probabile che la maggior parte delle banche centrali ridurrà i tassi in modo meno aggressivo di quanto previsto e che la Fed, vista la forza del mercato del lavoro Usa, verosimilmente non assumerà il ruolo di guida (Figura 3). Inoltre, occorre tener conto del venir meno della politica monetaria aggressiva delle principali banche centrali globali, che ha rappresentato una significativa fonte di stress per i mercati finanziari negli ultimi due anni.

    1. “Gli effetti della politica monetaria sull’economia si faranno presto sentire”: riteniamo chetali effetti potrebbero già aver avuto le loro conseguenze (come nel caso SVB). I consumatori e le imprese statunitensi sembrano invece aver resistito alla stretta monetaria, mentre il ruolo delle banche nella concessione del credito oggi è molto meno critico rispetto ai decenni passati. Le rate dei mutui non hanno subito incrementi significativi e i costi di finanziamento del debito aziendale si mantengono ai minimi storici. Tutto questo non gioca sicuramente a favore della tesi di chi scommette contro l’economia Usa.
    1. “L’escalation delle tensioni geopolitiche porterà alla deriva l’economia globale”: nella loro indubbia tragicità, solitamente i conflitti geopolitici hanno un impatto temporalmente limitato sui mercati finanziari. A meno di un brusco shock petrolifero che colpisca duramente i consumatori, come accaduto nel 2008, quello di una recessione innescata da eventi geopolitici rimane uno scenario a bassa probabilità.
    1. “Bisogna estendere il prima possibile la duration del portafoglio”: assumere una posizione “long duration”, ovvero preferire obbligazioni governative a scadenza più lunga, anziché liquidità,si dimostra una strategia efficace quando: a) le banche centrali effettuano tagli più consistenti di quanto prezzato; b) l’inflazione è al di sotto del livello target; c) il mercato del lavoro è in fase di deterioramento. Nonostante i tassi siano probabilmente giunti al massimo, fino a quando non verranno soddisfatte le condizioni indicate sotto (Figura 4), potrebbe quindi ancora esserci margine per aggiungere duration al portafoglio.
    1. “Non c’è speranza che il settore del credito e l’azionario possano risollevarsi da questa situazione”: anzitutto bisogna guardare al rendimento assoluto e corretto per l’inflazione delle obbligazioni rispetto alla storia recente. In secondo luogo, un “atterraggio morbido” (cioè uno scenario in cui la Fed riesce a calibrare con precisione i tassi, la volatilità diminuisce, il dollaro si indebolisce, l’inflazione torna sotto controllo e l’economia continua a crescere) rappresenta la ricetta perfetta per credito e azioni. Infine, per capire dove saranno diretti i tassi di politica monetaria nel corso del prossimo anno, pensiamo che la Fed ridurrà i tassi meno di quanto prevedono i mercati, il che potrebbe deludere gli investitori nel breve termine.

    Sappiamo che il nostro approccio critico potrebbe deludere chi è alla ricerca di profezie da indovino, ma riteniamo che sia la strategia migliore, perché solo confutando le certezze più radicate è possibile mettere in luce gli errori e, forse, scoprire alcune verità. Il nostro obiettivo non deve essere quello di raggiungere la precisione assoluta, bensì quello di individuare tutte le possibili alternative ed eliminare quelle errate, per prepararci al meglio ad affrontare la piega che prenderà il futuro.

  • Payden & Rygel – Chart of the week – Cosa giustificherebbe un taglio dei tassi da parte della Fed nel 2024?

    Payden & Rygel – Chart of the week – Cosa giustificherebbe un taglio dei tassi da parte della Fed nel 2024?

    Cosa giustificherebbe un taglio dei tassi da parte della Fed nel 2024? Dai verbali della riunione del FOMC di dicembre, appena pubblicati, emergono due considerazioni significative: in primis, “nel 2023 sono stati compiuti chiari passi in avanti verso l’obiettivo di un’inflazione al 2%”, in particolare se si guarda al “recente calo del dato a sei mesi”. In secondo luogo, i policymaker vedono “crescenti segnali di un maggiore equilibrio tra domanda e offerta sul mercato del lavoro”, una condizione destinata ad “attenuare le pressioni al rialzo sui salari nominali e sui prezzi”. I risultati del rapporto mensile Job Openings and Labor Turnover Survey (Jolts) di novembre, pubblicato questa settimana, hanno rafforzato l’opinione che gli squilibri sul mercato del lavoro si stiano attenuando: il “tasso di abbandono” è sceso al 2,2%, segno che i lavoratori sono meno inclini a cambiare lavoro alla ricerca di stipendi più elevati. Supponendo che l’inflazione continui a rallentare e che il mercato del lavoro torni in equilibrio, la Fed potrebbe permettersi una politica meno restrittiva: un’ottima notizia per gli investitori che sperano in un taglio dei tassi. Ma il mercato, che prevede 130 punti base di tagli già a partire da marzo, potrebbe stare correndo troppo.

  • Outlook mercati obbligazionari: il 2024 sarà l’anno dei corporate bond?

    Outlook mercati obbligazionari: il 2024 sarà l’anno dei corporate bond?

    • Le manovre di rialzo della Fed sembra siano giunte al termine e al momento non si prevedono tagli dei tassi per il 2024, considerati i dati macroeconomici ancora solidi. Il mercato del lavoro, infatti, è in buona salute, così come la crescita del PIL nel terzo trimestre
    • Lo scenario 2024 si presenta favorevole per le società investment grade, con possibili aumenti significativi delle cedole e rendimenti medi del 5-6%, rendendo l’asset class molto appetibile
    • Il 2023 è stato un anno positivo anche per il mercato delle obbligazioni high yield, ad oggi in rialzo di circa l’8,5%. In prospettiva, le aziende high yield sono ben preparate a una possibile recessione e i loro bilanci rimangano solidi; il mercato è in rialzo di circa l’8,5%, con previsioni per l’anno prossimo piuttosto positive
    • In assenza di uno shock esogeno rilevante, o di una palese cattiva gestione delle strutture di capitale, non ci si aspettano grandi picchi di default ma piuttosto buone opportunità per i gestori attivi di individuare obbligazioni dal valore interessante per i loro investitori

    A cura di Natalie Trevithick, responsabile delle strategie US Investment Grade di Payden & Rygel

    Milano, 18 dicembre 2023 – Come superare l’incertezza del mercato e trovare opportunità di investimento nel 2024? Il 2023 è stato un anno interessante per i titoli societari, le previsioni iniziali ipotizzavano un importante cash flow, con cedole molto proficue e rendimenti al 5%. Sebbene quel livello sia stato raggiunto rapidamente già alla fine del secondo trimestre, successivamente abbiamo assistito a un’inversione di rotta, a causa dell’aumento dei tassi d’interesse. Tuttavia, non mancano le buone notizie: l’indice societario da 1 a 30 anni è in rialzo del 3,3%.

    In termini di spread, a inizio anno le società investment grade staccavano di 130 punti base i Treasury, mentre attualmente, si attestano a 21 punti base in meno. L’aspetto interessante è che, nonostante i tassi siano scesi drasticamente, la domanda di titoli societari negli ultimi due mesi ha subito un’accelerazione, probabilmente dovuta al fatto che il mercato ritiene che il ciclo di rialzi della Federal Reserve sia ormai giunto al termine.

    Per quanto riguarda la curva dei rendimenti societari, quest’ultima non ha registrato movimenti significativi nel corso dell’anno, mantenendosi piatta. I titoli societari a breve durata, da uno a tre anni, si aggirano intorno a un rendimento del 5,75%, mentre i titoli societari a lunga durata, fino a oltre 10 anni, stanno registrando un rendimento del 5,82%.

    Quali sono le prospettive per il 2024? Le nostre previsioni macroeconomiche sono positive: la Fed dovrebbe avere effettivamente terminato le manovre di rialzo e, guardando ai dati macroeconomici ancora solidi, riteniamo che non ci saranno tagli dei tassi nel 2024. Il mercato del lavoro, infatti, è ancora in buona salute, così come la crescita costante del PIL avvenuta nel terzo trimestre, sebbene le previsioni per il quarto trimestre potrebbero essere molto più modeste.

    Si tratta di uno scenario piuttosto favorevole per le società investment grade e il 2024 potrebbe rivelarsi un anno davvero fruttuoso. Infatti, se i tassi d’interesse si mantenessero su livelli elevati, pur lontani dai massimi, si riscuoterebbero molte cedole, con rendimenti medi del 5-6%. Inoltre, nel caso in cui la Fed non optasse per un taglio dei tassi, significherebbe che l’economia sta godendo di ottima salute e che quindi lo spread non dovrebbe aumentare.

    Attualmente i fondamentali societari rimangono solidi e il forte rialzo dei tassi di interesse non ha avuto un impatto rilevante sui costi complessivi. Per quanto riguarda le società investment grade, non sono previsti grandi cambiamenti nelle loro previsioni di offerta per il 2024.

    Nel complesso, dunque, il 2023 si è rivelato un anno positivo per le imprese. Forse entro la fine dell’anno non raggiungeremo quei rendimenti del 5% inizialmente previsti e ci avvicineremo piuttosto al 4%, ma pensiamo che nel 2024 ci sarà una spinta in più, che dovrebbe avvicinarci al 6%. Considerando lo storico, questo sembra essere un rendimento significativamente positivo per una classe d’investimento molto sicura.

    Dal punto di vista dei rendimenti complessivi, il 2023 è stato un anno solido anche per il mercato delle obbligazioni high yield. Alla forte performance hanno contribuito diversi fattori macro, primo tra tutti la tenuta degli utili societari, che hanno battuto le aspettative. Ad oggi, il mercato high yield è in rialzo di circa l’8,5%, rendimenti che in pochi prevedevano all’inizio di quest’anno e che si dimostrano attraenti e competitivi rispetto ai potenziali rendimenti a lungo termine delle azioni.

    Anche le previsioni per l’anno prossimo sono positive e si basano su diversi fattori. In primo luogo, si ritiene che i fondamentali del mercato rimarranno solidi, così come i bilanci delle aziende che nel complesso sono ben preparate a un’eventuale recessione. Se nel corso del prossimo anno si dovesse verificare un’inattesa flessione degli utili, la maggior parte di queste società è ben posizionata per resistere e superare la tempesta.

    Quando si parla di prospettive, inoltre, è utile fare riferimento al contesto storico. Gli investitori pensano che il rischio principale per gli high yield sia un picco di default e un’erosione materiale del capitale, ma la storia ci insegna che in assenza di uno shock esogeno rilevante o di una palese cattiva gestione delle strutture di capitale, è piuttosto raro assistere a grandi picchi di default, e non ci sono prove che si stiano verificando in questo momento.

    Ovviamente è difficile fare una valutazione sugli shock esogeni, ma la previsione di base per il 2024 è che un’impennata sostanziale del tasso di default sia molto improbabile. Si pensa che nel 2024 si manterrà un livello di base di inadempienze in graduale aumento, e che continuerà a verificarsi una modesta erosione dei rating e dei fondamentali, ma tale erosione avverrà a partire dai massimi storici, tornando semplicemente verso le medie storiche.

    Gli investitori non devono considerare questo dato come perdita di appetibilità dell’asset class, ma solo come una naturale inversione di tendenza dopo un contesto di tassi d’interesse estremamente bassi. Tuttavia, non si prevede che l’aumento dei costi di capitale abbia un impatto significativo sui flussi di cassa per la maggior parte degli emittenti, data la salute dei bilanci. Si ritiene, quindi, che ci saranno buone opportunità per i gestori attivi di individuare obbligazioni dal valore interessante per i loro investitori.

  • Payden & Rygel – Chart of the week – 2024: prospettive di politica monetaria

    Payden & Rygel – Chart of the week – 2024: prospettive di politica monetaria

    Vedere i mercati obbligazionari globali prezzare un sostanziale allentamento della politica monetaria per il prossimo anno, mentre in Europa e UK sembra esserci stata una ripresa dei consumi, è uno scenario che desta qualche perplessità. Se non altro, i consumi dovrebbero essere almeno in calo se i banchieri centrali fossero sul punto di abbassare i tassi per contrastare il rallentamento della crescita o una contrazione economica.

    Qualcuno si è chiesto se il prezzo di mercato non coincida semplicemente con la convalida da parte del mercato di uno scenario di “soft landing”, che consentirebbe alle banche centrali un allentamento della loro politica monetaria già nel primo semestre del 2024.

    Sorge qualche scetticismo: un “atterraggio morbido” implicherebbe un rallentamento dell’inflazione senza un significativo aumento della disoccupazione. Si prenda come esempio la BCE: un allentamento monetario di 150 punti base nel 2024 sarebbe più in linea con un rapido ritorno dell’inflazione al 2% e con un marcato aumento della disoccupazione, necessario per convincere i banchieri centrali che l’inflazione resterà più bassa a lungo.

    Uno scenario possibile, ma da valutare con cautela, viste le già grandi aspettative del mercato.

  • “Bad news is good news” per gli investitori obbligazionari

    “Bad news is good news” per gli investitori obbligazionari

    • Con i rendimenti societari al 6,25% e gli spread creditizi vicini ai massimi, quello attuale è un buon momento per acquistare bond societari investment grade di qualità superiore e ottenere un rendimento incrementale dai Treasury
    • Per gli investitori obbligazionari è fondamentale anche monitorare i dati macro, ma va considerato che gli attuali livelli di inflazione e tassi e le minacce di recessione, fattori potenzialmente dannosi per gli investimenti azionari, possono essere positivi per quelli obbligazionari
    • Se si dovesse verificare una recessione, gli spread degli emittenti investment grade si allargherebbero; tuttavia, più che in recessione, oggi ci troviamo in uno scenario di “no landing”, con una crescita ancora troppo forte perché la Fed possa smettere di alzare i tassi, almeno nel breve periodo
    • C’è asincronia tra ciò che gli investitori vogliono comprare e ciò che le aziende vogliono emettere: se, infatti, da un lato, cresce la domanda di obbligazioni societarie a 10 e 30 anni, perché gli investitori vogliono assicurarsi gli attuali rendimenti per periodi più lunghi, dall’altro le società vogliono emettere più debito a breve termine, per non pagare tassi più alti più a lungo
    • Per gli investitori obbligazionari “Bad News is Good News”: se la Fed dovesse tagliare il costo del denaro e i tassi di interesse sottostanti dovessero scendere, questo, determinando un rialzo dei rendimenti, rappresenterebbe un fattore positivo per gli investitori obbligazionari

    A cura di Natalie Trevithick, responsabile delle strategie US Investment Grade di Payden & Rygel

    Milano, 27 novembre 2023 – I rendimenti societari sono attualmente al 6,25%, come risultato della somma tra la componente dei Treasury US e il relativo spread, che si è recentemente allargato e ora si aggira intorno ai 130 punti base. Dal punto di vista del rendimento, si tratta di un aumento di quasi 100 punti base da un anno con l’altro e proprio questi livelli di rendimenti inducono la maggior parte degli investitori a considerare quello attuale come un buon momento per acquistare bond societari investment grade di qualità superiore e ottenere un rendimento incrementale dai Treasury. I “Magnifici Sette” [Alphabet, Amazon, Apple, Meta, Microsoft, Nvidia e Tesla], ad esempio, possono ancora contare su enormi saldi di cassa e bilanci solidi e i loro spread creditizi non saranno influenzati dai corsi azionari.

    Per gli investitori obbligazionari è fondamentale anche monitorare i dati macro: nel terzo trimestre 2023 il PIL ha registrato una crescita del 4,9%, rispetto al 4,5% delle attese e la forza dei consumi, che rappresentano il 2,7% della spesa totale, ispira ottimismo. Ciò che può pregiudicare i rendimenti azionari, come ad esempio inflazione e tassi elevati o pericolo di recessione, rappresenta un fattore positivo per i detentori di obbligazioni. Inoltre, gli emittenti obbligazionari sono molti di più rispetto a quelli azionari e ciascuno di essi può avere un’ampia gamma di titoli di debito in circolazione, per cui è possibile decidere se acquistare obbligazioni a due anni con rendimenti elevati per un periodo di tempo più breve, oppure obbligazioni a 10 o 30 anni, i cui rendimenti possono essere un po’ più bassi, data la curva dei rendimenti invertita.

    Dopo l’accordo sulla sospensione del tetto del debito negli Stati Uniti, all’inizio di giugno, abbiamo assistito a un forte rally del credito. Nonostante la risalita dei rendimenti, gli spread delle obbligazioni societarie investment grade hanno retto, dimostrando di non temere né gli eventi geopolitici, né la recessione incombente, che verosimilmente dovrebbero indurre gli investitori alla cautela e a spostarsi verso le obbligazioni corporate rispetto ai soli Treasury. Forse, per non subire un impatto sugli spread obbligazionari, i mercati dovrebbero smettere di indossare gli “occhiali rosa” e muoversi con maggiore cautela.

    Se si dovesse verificare una recessione, gli spread degli emittenti investment grade si allargherebbero rispetto al livello attuale di circa 130 punti base, arrivando a un’ampiezza di circa 200 punti. Nei momenti di maggior volatilità degli ultimi due anni, gli spread hanno toccato i 165 punti base, ma subito gli investitori, individuando un’opportunità di acquisto, sono intervenuti per restringerli. Tuttavia, al momento non ci troviamo in uno scenario di recessione, quanto piuttosto in uno scenario di “no landing”, con una crescita ancora troppo forte perché la Fed possa smettere di alzare i tassi, almeno nel breve periodo. La possibilità di una nuova accelerazione della crescita appare come un’ottima prospettiva per le aziende.

    Il momento attuale sembra anche propizio per un allungamento delle scadenze in previsione di un cambiamento nel quadro dei tassi. La curva sta iniziando a invertirsi: il differenziale tra il Treasury a due anni e quello a 10 anni è di soli 18 punti base e la curva dei Treasury è in salita dai 10 ai 30 anni; quindi, stiamo assistendo a una maggiore domanda di obbligazioni societarie a 10 e 30 anni, perché gli investitori vogliono assicurarsi questi rendimenti più elevati per periodi più lunghi. D’altro canto, le società vogliono emettere più debito a breve termine (a due, tre e cinque anni), perché, anche se oggi pagano interessi più alti, non vogliono bloccare quei tassi più a lungo. C’è quindi una sorta di asincronia tra ciò che gli investitori vogliono comprare e ciò che le aziende vogliono emettere.

    Dal punto di vista geografico, al momento gli Stati Uniti sono di gran lunga il mercato più ampio, con oltre l’80% delle obbligazioni corporate denominate in dollari. Anche sul fronte macro, la situazione degli Stati Uniti sembra migliore, mentre in Europa notiamo segni di debolezza che ci rendono più cauti, come la recessione tedesca e lo stress del mercato britannico. Troviamo valore a livello globale anche in alcune obbligazioni canadesi e australiane, ma la nostra area geografica preferita restano gli USA, date le prospettive più solide.

    Per quanto riguarda i rischi geopolitici, sembra che gli investitori non ne tengano abbastanza conto, mostrandosi comunque resilienti rispetto ad eventi quali i conflitti in Israele e Ucraina. Il mercato continua a prevedere tagli dei tassi da parte della Fed già per il prossimo anno, ma questo ci sembra improbabile dato il quadro di forte crescita. Se, tuttavia, la Fed dovesse tagliare il costo del denaro e i tassi di interesse sottostanti dovessero scendere, questo, determinando un rialzo dei rendimenti, rappresenterebbe un fattore positivo per gli investitori obbligazionari. Quindi, in un certo senso, le cattive notizie potrebbero essere buone per gli investitori del credito.

    Quella che si verificherà sarà la recessione più attesa di sempre, prevista a partire dallo scorso anno, e i team di gestione hanno avuto molto tempo per posizionare i propri bilanci e intraprendere le azioni necessarie, come ad esempio tagliare le imposte sul capitale o effettuare licenziamenti, come accaduto in gran parte del settore tecnologico. Inoltre, dopo la pandemia le aziende hanno potuto accedere a capitali molto convenienti, con tassi di interesse dell’uno, due o tre per cento. Quindi, hanno già prefinanziato molte delle loro scadenze e hanno esteso il loro profilo di scadenza emettendo obbligazioni a 10 e 30 anni in quel periodo.

    La cedola media sul debito in essere è aumentata di soli 50 punti base dai minimi del marzo 2022, quando era del 3,6% sui 9.000 miliardi di dollari del mercato corporate, e ora è intorno al 4,1%.  Queste società stanno rifinanziando circa il 10% della struttura del loro capitale e non procedono ogni anno a rimodulare tutte le loro passività. Hanno ancora molte obbligazioni a cedola inferiore nel loro profilo di credito, il che significa che stanno aumentando solo in modo incrementale alcuni dei loro costi di finanziamento.

  • Global Bonds: la chiave per un buon punto di ingresso

    Global Bonds: la chiave per un buon punto di ingresso

    ·         Nel corso del 2023, l’inflazione vischiosa, la crescita economica migliore del previsto e la maggiore offerta di Treasury hanno colto di sorpresa gli operatori facendo salire i rendimenti a livelli che non si vedevano dai tempi della Grande Crisi Finanziaria

    ·         I programmi di QT delle banche centrali rendono i rischi di liquidità meno appetibili, e spingono a valutare segmenti più liquidi dei mercati a reddito fisso quali titoli di Stato, corporate bond investment grade o Mortgage Backed Security negli Stati Uniti

    ·         Anche i TIPS rappresentano un ottimo strumento di diversificazione, soprattutto per proteggere i portafogli dal rischio di una ripresa dell’aumento dei prezzi

    ·         Specularmente siamo meno esposti al debito high-yield, a quello emergente sub-investment-grade e ai cartolarizzati di minore qualità, che, pur offrendo opportunità nel lungo termine, nel breve e medio periodo non crediamo prezzino sufficientemente i rischi cui potremmo assistere

    ·         In un contesto di fine ciclo come quello attuale, l’obbligazionario globale può essere una buona soluzione per un maggiore livello di diversificazione, ma anche per trarre vantaggio dalla dispersione dei rendimenti nei mercati obbligazionari di varie aree geografiche

    ·         Nonostante i rischi di cui tenere conto, gli investitori dovrebbero considerare il momento attuale un buon punto di ingresso sul segmento obbligazionario e valutare anche l’allungamento della duration

    A cura di Paul Saint-Pasteur, gestore del Team Global Fixed Income di Payden & Rygel

    Milano, 22 novembre 2023 – Il mercato dei bond quest’anno è partito forte, ma la volatilità è stata protagonista.  Per capire se il momento attuale, con i relativi rischi di cui tenere conto, offra comunque agli investitori un buon punto di ingresso sul segmento obbligazionario, occorre anzitutto analizzare i fattori che hanno guidato la performance dei mercati nel corso dell’anno e capire cosa li abbia fatti deviare dalle previsioni.

    Tre i fattori che hanno colto di sorpresa gli operatori facendo salire i rendimenti a livelli che non si vedevano dai tempi della Grande Crisi Finanziaria, con il rendimento dell’indice obbligazionario globale aggregato con copertura in euro arrivato quasi a toccare il 4%. Il primo fattore è senza dubbio l’inflazione che, pur essendo calata, si è rivelata più vischiosa del previsto e ha spinto le banche centrali ad aumentare i tassi al di sopra delle aspettative iniziali. Il secondo è la crescita migliore delle previsioni, specialmente negli USA, mentre il terzo è rappresentato dalla crescente offerta di Treasury, che ha portato a squilibri tra domanda e offerta nel mercato obbligazionario. Limitarsi a guardare ai rendimenti, pur interessanti rispetto agli standard storici, potrebbe essere semplicistico: l’ideale è monitorare da vicino l’evoluzione di questi tre fattori. Ad oggi esistono ancora rischi legati a inflazione, crescita e offerta di Treasury che potrebbero spingere i rendimenti al rialzo, ma dal punto di vista dei ritorni totali, abbiamo un cuscinetto molto più ampio per proteggere gli investimenti obbligazionari. In futuro, le politiche monetarie e gli squilibri tra domanda e offerta di titoli del Tesoro USA potrebbero esercitare una minore pressione al rialzo sui rendimenti. La crescita potrebbe continuare a spingere questi ultimi verso l’alto se si mantenesse solida, ma non possiamo escludere un rallentamento del PIL in futuro, come già si è iniziato a vedere in Europa o nel Regno Unito, con conseguenze in termini di apprezzamento del capitale per le obbligazioni globali. In un simile contesto di fine ciclo, i rendimenti totali dei bond sono in genere positivi, superiori a quelli della liquidità e, anche se nel breve restano diverse incertezze, probabilmente quello attuale è un buon momento per iniziare ad allungare la duration.

    Un portafoglio aggregato globale può essere la soluzione

    Le banche centrali potrebbero aver raggiunto i livelli massimi (o quasi) di questo ciclo di rialzi; forse solo gli Stati Uniti o il Regno Unito, per motivi diversi tra loro, potrebbero optare per uno o due ulteriori aumenti dei tassi. A nostro avviso, i segnali di rallentamento economico emersi in Europa, Regno Unito, Cina e altre regioni suggeriscono che la stretta monetaria si stia trasmettendo all’economia reale. Gli Stati Uniti, che quest’anno hanno sorpreso molti investitori con la resilienza della loro economia, sono un’eccezione e pensiamo che la tendenza sarà quella di un rallentamento della crescita a livello globale nel 2024.

    La prosecuzione o l’accelerazione da parte delle banche centrali dei loro programmi di Quantitative Tightening rende i rischi di liquidità meno appetibili, e ci spinge a valutare segmenti prime e più liquidi dei mercati a reddito fisso, quali titoli di Stato, corporate bond investment grade o Mortgage Backed Security negli Stati Uniti.

    Specularmente siamo meno esposti al debito high-yield, a quello emergente sub-investment-grade e ai cartolarizzati che si trovano più in basso nello spettro di rating e che, pur offrendo opportunità nel lungo termine, nel breve e medio periodo non crediamo prezzino sufficientemente i rischi cui potremmo assistere.

    I TIPS (cioè i Titoli del Tesoro Usa protetti dall’inflazione) rappresentano un ottimo strumento di diversificazione, soprattutto per proteggere i portafogli dal rischio di una ripresa dell’aumento dei prezzi che potrebbe eventualmente verificarsi, ad esempio, nel breve termine a causa di uno shock energetico o nel medio periodo a causa di trend più strutturali come il calo demografico, la decarbonizzazione o la deglobalizzazione. I TIPS presentano valutazioni interessanti e proteggono gli investitori da queste variabili aleatorie rispetto alle obbligazioni nominali tradizionali, pur conservando comunque di queste alcuni vantaggi.

    Nella costruzione dei portafogli è inoltre necessario effettuare distinzioni tra le varie asset class. Analizzando l’esposizione ai titoli di Stato e la sensibilità ai tassi d’interesse bisogna tener conto del fatto che con il calo della crescita economica nel Vecchio Continente sia più probabile che i rendimenti si stabilizzino o addirittura diminuiscano; quindi, saremmo propensi ad allungare la duration e ad avere un’esposizione un po’ più elevata ai titoli di Stato nei mercati europei core, ad esempio.

    Dal punto di vista del credito, la situazione è opposta. Il rallentamento della crescita e l’inasprimento delle condizioni di concessione dei prestiti potrebbero esercitare pressioni al rialzo sugli spread del credito in Europa, dando luogo a performance meno brillanti rispetto agli USA.

    In ogni caso riteniamo che nel corso del 2024 emergeranno maggiori divergenze a livello regionale rispetto a quanto accaduto nel 2023. Già nella seconda metà di quest’anno, abbiamo visto la crescita economica Usa superare quella di Regno Unito ed Europa e simili divergenze potranno persistere nel 2024. L’obbligazionario globale può essere una buona soluzione per beneficiare di un maggiore livello di diversificazione, ma anche per trarre vantaggio dalla dispersione dei rendimenti nei mercati obbligazionari di varie aree geografiche.

    Pur essendoci ancora molta incertezza sui mercati, crediamo che la combinazione di rendimenti complessivi interessanti e il rischio di un rallentamento economico globale dovrebbe rappresentare una congiuntura favorevole per il reddito fisso, che offre prospettive nel complesso positive per il 2024. Per gli investitori questo rappresenta un buon punto di ingresso sul segmento obbligazionario ed è il momento giusto per prendere in considerazione un allungamento della duration.

  • Cina, fuga di capitali o ricerca di rendimenti?

    Cina, fuga di capitali o ricerca di rendimenti?

    Payden & Rygel – Chart of the week –

    Questa settimana due colossi dell’economia mondiale si sono incontrati a San Francisco, allentando le tensioni tra loro: all’appuntamento annuale dell’Asia-Pacific Economic Cooperation (APEC) si sono infatti riuniti i Xi Jinping e Joe Biden, presidenti di due Stati che sono l’uno l’argomento polarizzante dell’altro per l’opinione pubblica dei rispettivi Paesi.

    Questa polarizzazione potrebbe, però, influenzare il giudizio sugli investimenti: per esempio, alcuni investitori individuano nel recente crollo degli investimenti diretti esteri in Cina (IDE) un segnale dell’abbandono del Dragone da parte delle imprese globali; tuttavia, la realtà è più complessa.

    Al netto dell’impatto degli utili reinvestiti, gli IDE in attività produttive e in nuovi progetti rimangono relativamente stabili. Sicuramente, le aziende straniere potrebbero sottrarre alla Cina gli utili non distribuiti a causa dei timori geopolitici.

    Tuttavia, un’altra spiegazione è possibile, e riguarda i differenziali dei tassi d’interesse: quelli USA sono infatti molto più alti rispetto agli equivalenti cinesi, con i Treasury a due anni che rendono circa il 5%, mentre gli equivalenti cinesi solo il 2,3%. Fuga di capitali o semplice ricerca di rendimenti?

  • Payden & Rygel – Chart of the week – Attenzione alla nuova stretta in Australia

    Payden & Rygel – Chart of the week – Attenzione alla nuova stretta in Australia

    Questa settimana la Reserve Bank of Australia (RBA), ha aumentato il suo policy rate – il suo tasso ufficiale in contanti – di 25 punti base. Una decisione rilevante, perché la RBA è stata la prima banca centrale, seguita dalla Fed, a optare per una sospensione del ciclo di rialzi dei tassi, una sospensione durata cinque mesi che lasciava presupporre la fine ormai prossima della stretta monetaria.

    Tuttavia, questa è l’occasione per ribadire che sono i dati, non i policymaker o il mercato, a decidere la direzione dei tassi: il tasso di disoccupazione in Australia rimane basso, mentre l’inflazione core resta sticky e, per dirlo con le parole del governatore Bullock,  “il peso dei dati suggerisce che il rischio di un’inflazione higher for longer è aumentato”. Più in generale, le previsioni degli investitori obbligazionari che pensavano che le banche centrali avrebbero presto terminato con i rialzi sono state ripetutamente smentite.

    Nelle ultime settimane il mercato obbligazionario è stato travolto da un’altra ondata di aspettative sulla fine dei rialzi dei tassi e, per gli investitori, il caso RBA dovrebbe rappresentare un avvertimento.

  • Economia Usa: è ancora possibile un “atterraggio morbido”?

    Economia Usa: è ancora possibile un “atterraggio morbido”?

    A cura di Jeffrey Cleveland, Chief Economist di Payden & Rygel

    Milano, 7 novembre 2023 – Crediamo che la Federal Reserve abbia tre possibili strade davanti a sè: optare per nuovi rialzi, tagliare i tassi oppure rimanere in attesa, come accaduto nella metà degli anni Novanta e per buona parte degli anni Dieci dei Duemila. I dati macroeconomici più recenti mostrano, accanto alla tradizionale “binarietà” del mercato obbligazionario, anche questo terzo scenario.

    Dopo il rapporto sull’occupazione negli Stati Uniti pubblicato la scorsa settimana, che ha registrato 150.000 nuovi posti di lavoro, il mercato dei bond sembra incline a ritenere che il momento di un taglio dei tassi si stia avvicinando. Ampliando la prospettiva, però, si può notare come la media mobile a 3 mesi sia di 204.000 e quella a 6 mesi sia di 206.000 unità, per cui non ci sembra di cogliere alcun segnale di allarme sul mercato del lavoro.

    Qualcosa di simile è accaduto con le ultime previsioni preliminari di crescita del Pil statunitense rilasciate dalla Fed di Atlanta secondo il modello GDPNow. Nonostante si tratti di un’anticipazione delle stime ufficiali basata sui dati del trimestre in corso, il tasso di crescita dell’1,2% previsto per il 4° trimestre 2023 indica che l’economia crescerà comunque del 2,6% su base annuale, un dato molto al di sopra del trend. 

    Per il prossimo semestre il nostro caso base è ancora quello di un “atterraggio morbido” (caratterizzato da inflazione contenuta e crescita costante), che starebbe a indicare una Fed in attesa, non ancora pronta a effettuare tagli dei tassi. Ciò che ci preme sottolineare è, tuttavia, il rischio del secondo scenario più probabile: un “no-landing”, con una crescita al di sopra del trend, ma un’inflazione ancora troppo vischiosa, che porterebbe la Fed, dopo una pausa, a tornare ad alzare i tassi. Al momento riteniamo che gli investitori non stiano considerando quest’ipotesi e, tanto meno, la stiano incorporando nelle loro valutazioni.

  • Payden & Rygel – Chart of the week – Siamo certi che la Fed sia alla fine del suo ciclo rialzista?

    Payden & Rygel – Chart of the week – Siamo certi che la Fed sia alla fine del suo ciclo rialzista?

    Questa settimana, per la seconda volta consecutiva, il Federal Open Market Committee ha mantenuto invariati i tassi di interesse. In risposta, i titoli di Stato Usa hanno registrato un’impennata, in quanto gli investitori sembrano ormai certi che la Fed sia giunta alla fine del suo ciclo rialzista.

    Il presidente Jerome Powell è stato più cauto, affermando che i policymaker stanno ancora valutando le proprie mosse. Forse, l’aumento di 525 punti base deciso nel corso delle 13 riunioni precedenti potrebbe essere stato sufficiente, senza contare che lo stesso Powell ha indicato l’inasprimento delle condizioni finanziarie come una delle ragioni principali della decisione della Fed.

    In effetti, un nuovo indicatore seguito dalla banca centrale Usa è quello che lega le condizioni finanziarie alla crescita economica: l’inasprimento delle prime (non a sorpresa, vista l’impennata dei rendimenti del Treasury a 10 anni) dovrebbe pesare sulla crescita e contribuire al rallentamento dell’inflazione.

    Tuttavia, i più curiosi si potrebbero domandare: “se le condizioni finanziarie sono così rigide, perché la crescita economica è rimasta robusta, il tasso di disoccupazione basso e l’inflazione ben al di sopra dell’obiettivo? La Fed ha fatto abbastanza? Molti investitori pensano di sì, ma alla luce dei recenti dati economici statunitensi, non ne siamo così sicuri.

  • Payden & Rygel – “Un’ottima annata” per i bond high yield

    Payden & Rygel – “Un’ottima annata” per i bond high yield

    A cura di Jordan Lopez, Director e Head of the High Yield Strategy Group, e Nick Burns, High Yield Co-Portfolio Manager di Payden & Rygel

    Milano, 16 ottobre 2023 – Finora il 2023 si è rivelato “un’ottima annata” per i bond High Yield, che hanno sovraperformato diversi segmenti del reddito fisso e, in base alle ultime rilevazioni di settembre, stanno crescendo del +5,9% su base annua.

    Analizzando da vicino i fattori che contribuiscono a questa sovraperformance, si nota che, anzitutto, nonostante l’elevata volatilità dei tassi, l’HY ha comunque generato rendimenti solidi grazie alla compressione degli spread e ai flussi di cedolari elevati. A questo risultato hanno poi decisamente contribuito:

    • il miglioramento dell’inflazione e gli scarsi segnali di recessione (con basse previsioni di default);
    • i dati macro più forti del previsto, compresi quelli relativi a crescita e occupazione, e la resilienza degli utili societari;
    • i solidi dati tecnici: l’offerta netta è stata negativa per i primi trimestri dell’anno, a -$76 miliardi, in gran parte a causa dell’abbandono degli “astri nascenti” dell’HY, ossia titoli HY che possono diventare IG a causa del miglioramento della qualità del credito dell’emittente.

    Le nuove emissioni di bond HY sono superiori rispetto allo scorso anno, ma ancora ben lontane dai picchi del 2020 e del 2021. Gli emittenti high quality stanno posticipando il momento del rifinanziamento e il mercato delle nuove emissioni è per lo più precluso agli emittenti low-quality (meno dell’1% delle emissioni ha un rating CCC secondo JP Morgan).

    In secondo luogo, i fondamentali del credito si stanno indebolendo, ma rimangono solidi, così come i fondamentali del settore high yield, fatta eccezione per gli emittenti in difficoltà.

    Il rischio di default è basso per la maggior parte degli emittenti, per via della loro storica capacità di far fronte al pagamento di interessi e capitale: le società hanno bloccato le cedole a tasso fisso quando i rendimenti erano bassi e ora possono finanziare il loro debito facilmente. Anche la leva finanziaria rimane inferiore ai livelli medi storici e i team di gestione non hanno effettuato nuove operazioni di leverage sui bilanci, nonostante i tassi bassi e gli utili elevati. Riteniamo che queste condizioni probabilmente persisteranno per i prossimi due anni. Infine, solo il 12% del mercato presenta un debito in scadenza prima del 2026, il che offre alla maggior parte degli emittenti la possibilità di aspettare se i rendimenti rimangono elevati.

    Oggi i rendimenti dei bond HY sono nuovamente alti, nella fascia del 9% e, considerando che in passato  rendimenti iniziali elevati significavano ritorni annualizzati superiori alla media per i successivi cinque anni, rappresentato un indicatore affidabile dei rendimenti annualizzati per i 5 anni successivi, con una correlazione dello 0,93 (utilizzando l’indice ICE BofA BB-B US Cash Pay High Yield Constrained), il debito HY è un’asset class che premia l’investitore paziente e quello attuale potrebbe essere un buon punto d’ingresso per il mercato.

  • Calo dell’inflazione Usa: qualche considerazione

    Calo dell’inflazione Usa: qualche considerazione

    A cura di Jeffrey Cleveland, Chief Economist di Payden & Rygel

    Milano, 12 ottobre 2023 – Il dato dell’inflazione core pubblicato oggi negli Usa, probabilmente il più importante per i mercati, è rimasto stabile allo 0,3% su base mensile in settembre, in linea con il consenso. Il dato riflette il calo dei beni di consumo, trainati al ribasso dai prezzi di auto usate e abbigliamento, mentre i servizi core, dopo il rallentamento di agosto, in settembre sono tornati a crescere (+0,6% su base mensile).

    Sul fronte della politica monetaria, per raggiungere l’obiettivo dello 0,2% su base mensile, che rappresenta il target della Fed, è fondamentale che i prezzi di beni e servizi rallentino in modo sostenuto (0,6% è un livello ancora troppo elevato). Al momento, quindi, è presto per dichiarare la vittoria sull’inflazione, anche perché ad oggi il denaro si spende soprattutto per i servizi: questo non significa che nel corso del meeting di novembre la Fed opterà sicuramente per un aumento dei tassi, anche se i dati sul PIL statunitense del terzo trimestre e sui Non Farm Payrolls (NFP) lasciano il dibattito aperto. 

    Ampliando la prospettiva, la notizia più significativa per il mercato obbligazionario è rappresentata dal recente aumento dei tassi d’interesse a lungo termine, coerentemente con un quadro che vede: 

    ·    Dati sulla crescita dell’economia Usa migliori del previsto;

    ·    Politica di tassi “più alti più a lungo” da parte della Fed;

    ·    Dichiarazioni di Powell sul Quantitative Tightening nel corso della conferenza stampa di settembre;

    ·    Offerta di Treasury;

    ·    Posizionamento degli investitori.

  • Payden & Rygel – Caro affitti e inflazione

    Payden & Rygel – Caro affitti e inflazione

    Il caro affitti negli Stati Uniti e qualche preconcetto sull’inflazione

    ·         Negli Stati Uniti numerosi investitori sono convinti che l’inflazione comincerà a calare, complice il rallentamento dei prezzi degli affitti. Un ottimismo che dipende dai sondaggi sulle locazioni condotti da organismi privati, che, a nostro avviso, presentano delle criticità rispetto alle statistiche del governo. Per questo riteniamo che l’inflazione potrebbe risultare più rigida del previsto nel 2023 e nel 2024

    ·         Mentre la maggior parte dei metodi di misurazione degli affitti utilizzati nel settore privato tengono conto esclusivamente dell’aumento dei canoni per inquilini nuovi o temporanei, il Cpi misura la crescita degli affitti per tutti gli occupanti e indica che molti affittuari non assisteranno a un forte calo dei canoni di locazione nel prossimo futuro

    ·         La Housing Survey condotta dal Bureau of Labor Statistics, che è alla base della componente “affitti” dell’Indice dei Prezzi al Consumo, viene invece calcolata su un campione casuale “pienamente rappresentativo dello stock di alloggi in affitto nelle città degli Stati Uniti”, perciò risulta il metodo più completo per misurare i costi medi sostenuti dalle famiglie

    ·         Prevedere l’inflazione con un approccio “bottom-up”, cioè partire dal prezzo di un bene o di un servizio per poi prenderlo come riferimento per calcolare la tendenza generale dei prezzi, presenta una criticità intrinseca e un tema complesso come gli affitti dovrebbe suggerire agli investitori grande cautela nel fidarsi delle previsioni relative all’inflazione

    A cura di Jeffrey Cleveland, Chief Economist di Payden & Rygel

    Milano, 11 ottobre 2023 – Nonostante il costo degli alloggi negli Stati Uniti continui a crescere, molti investitori sono convinti che il picco inflattivo sia stato ormai raggiunto e che presto il livello dei prezzi comincerà ad abbassarsi, complice proprio il rallentamento dei canoni di locazione. Queste previsioni ottimistiche si basano su alcuni sondaggi condotti da organismi privati, che segnalano un raffreddamento dei prezzi degli affitti, per cui alcuni osservatori ritengono che presto le statistiche governative dovranno riflettere questo trend. A nostro avviso, però, questi sondaggi privati vengono condotti con metodi meno affidabili rispetto alle statistiche ufficiali elaborate dal governo e per questo motivo riteniamo che l’inflazione potrebbe risultare più rigida del previsto nel 2023 e nel 2024.

    Quanto incide il costo per gli alloggi sull’inflazione?

    La voce “alloggi” conta per un terzo dell’Indice dei Prezzi al Consumo (Cpi) degli Stati Uniti, mentre la sottocategoria “affitti” pesa solo per il 7,6% del Cpi complessivo e l’“Owners’ Equivalent Rent” (OER), che stima i costi sostenuti dai proprietari degli immobili, per il 25,6%. Dall’agosto 2022 all’agosto 2023, l’incremento della voce di spesa legata agli alloggi (+7,2%) ha rappresentato una considerevole porzione dell’aumento complessivo dell’inflazione. Dunque, sebbene gli affitti attirino gran parte dell’attenzione mediatica, in realtà rappresentano soltanto il 7,6% del paniere, mentre l’OER ne rappresenta la componente principale; negli Stati Uniti, infatti, la maggioranza delle famiglie (circa due terzi) è proprietaria di un immobile e dunque non deve pagare un canone di locazione. Con l’Owners’ Equivalent Rent il Bureau of Labor Statistics prova a stimare il costo dei servizi abitativi, ovvero le spese per i servizi relativi alla casa, che anche i proprietari devono sostenere. Si tratta di un indice ben diverso rispetto al prezzo degli immobili, poichè rappresenta quello che una famiglia dovrebbe spendere per usufruire di un servizio simile altrove, attraverso una stima dei canoni di locazione per immobili comparabili nella stessa regione. Va precisato, però, che questa metodologia non è universalmente accettata: 11 dei 17 Paesi che fanno parte dell’Ocse non includono nell’Indice dei Prezzi al Consumo le abitazioni occupate dai proprietari. A nostro parere, tuttavia, questo metodo non è così oscuro e, anzi, potrebbe essere esteso ad altri beni e servizi su cui l’onere dell’inflazione è meglio rappresentato dal valore di una rata mensile, piuttosto che dal costo iniziale di acquisto (come, ad esempio, auto o cellulari).

    Inquilino occasionale e inquilino “medio”

    È bene premettere che il Cpi non è un indicatore aggiornato dell’andamento dei prezzi degli affitti, bensì un modo per misurare il “costo della vita”, stimando il costo medio di un paniere di beni e servizi consumati dalle famiglie statunitensi, al cui interno rientrano anche le spese sostenute per l’abitazione. Tuttavia, mentre la maggior parte dei metodi di misurazione degli affitti utilizzati nel settore privato tengono conto esclusivamente dell’aumento dei canoni per inquilini nuovi o temporanei, il Cpi misura la crescita degli affitti per tutti gli occupanti e indica che, così come nel 2021 l’inquilino “medio” non ha subito un aumento repentino degli affitti, oggi, al contrario, molti affittuari non assisteranno a un forte calo dei canoni di locazione. Questo ci lascia supporre che l’inflazione potrebbe risultare più rigida sia nel 2023 che nel 2024.

    Per quanto riguarda l’aggiornamento dei costi delle abitazioni considerati per il calcolo del Cpi, le rilevazioni del Bureau of Labor Statistics vengono effettuate ogni sei mesi, poiché queste tempistiche rispecchiano i tempi di turnover o di rinnovo della maggior parte delle locazioni, che hanno generalmente una durata compresa tra i 6 e i 12 mesi.

    Nessun campione statistico è perfetto

    Concentrarsi sull’inquilino occasionale o temporaneo potrebbe dunque distorcere le statistiche, anche se alcuni potrebbero obiettare che su un orizzonte temporale abbastanza lungo e con un turnover sufficiente, l’inquilino occasionale e quello “medio” finiscono per coincidere. Tuttavia, la metodologia adottata dai sondaggi degli organismi privati presenta un’ulteriore criticità: se la quota di famiglie che si trasferisce cambia in modo significativo nel tempo o è particolarmente concentrata, focalizzarsi sull’inquilino occasionale porterebbe a intercettare le variazioni di prezzo per una frazione di mercato in continua evoluzione (quella incline a cambiare spesso casa), mentre non coglierebbe il costo medio complessivo dell’affitto sul mercato. Per fare un esempio concreto, si può ricordare il marcato rallentamento che gli affitti della baia di San Francisco hanno subito in seguito ai licenziamenti dei lavoratori del settore tecnologico a cavallo tra il 2020 e il 2021, laddove in altre regioni i canoni sono invece aumentati.

    Inoltre, solo l’indagine del Cpi considera anche “l’invecchiamento, i cambiamenti strutturali e la fornitura di servizi”: in questo modo si tiene conto del fatto che i proprietari possono sopportare delle spese ulteriori per godere dei vari servizi legati all’abitazione (per esempio l’acqua).

    Inoltre, la Housing Survey condotta dal Bureau of Labor Statistics, che è alla base della componente “affitti” dell’Indice dei prezzi al consumo, viene calcolata su un campione casuale “pienamente rappresentativo dello stock di alloggi in affitto nelle città degli Stati Uniti”, a differenza delle metriche più diffuse tra gli organismi privati, come lo Zillow Observed Rent Index (ZORI) e il CoreLogic Single-Family Rent Index (SFRI), i cui campioni comprendono abitazioni indipendenti in affitto di livello più elevato oppure appartamenti più grandi in un numero limitato di città. Se, da un punto di vista commerciale, le metodologie seguite dagli organismi privati possono avere un senso per misurare un campione di affittuari specifico, l’approccio adottato dal Bureau of Labor Statistics appare come il più completo per misurare i costi medi sostenuti dalle famiglie.

    Previsioni bottom-up

    Un ultimo punto merita di essere considerato: prevedere l’inflazione con un approccio “bottom-up”, cioè partire dal prezzo di un bene o di un servizio per poi prenderlo come riferimento per calcolare la tendenza generale dei prezzi, presenta una criticità intrinseca: un tema complesso come gli affitti dovrebbe suggerire agli investitori grande cautela nel fidarsi delle previsioni relative all’inflazione. Per esempio, come si vede nel grafico qui sotto, un mercato del lavoro rigido con una robusta crescita dei salari incide in maniera preponderante sull’andamento dei canoni di locazione, poiché ci si aspetta che la domanda di alloggi in affitto rimanga forte, soprattutto se le possibilità di comprare casa sono limitate.

    In conclusione, che gli affitti negli Stati Uniti possano essere ancora troppo alti fino al 2024 è un’ipotesi che merita di essere presa in considerazione.

    Questo materiale è stato approvato da Payden & Rygel Global Limited, società autorizzata e regolamentata dalla Financial Conduct Authority del Regno Unito, e da Payden Global SIM S.p.A., società di investimento autorizzata e regolamentata dalla CONSOB italiana.

    Questo articolo ha uno scopo puramente illustrativo e non è da intendersi come consulenza fiscale, legale o finanziaria professionale. Vi invitiamo a rivolgervi al vostro consulente fiscale, legale e finanziario per esaminare la vostra situazione specifica. Le dichiarazioni e le opinioni qui riportate sono aggiornate alla data del presente documento e sono soggette a modifiche senza preavviso. Inoltre, le opinioni espresse in questo articolo non sono necessariamente indicative dell’opinione di Payden & Rygel. Questo materiale non può essere riprodotto o distribuito senza l’autorizzazione scritta di Payden & Rygel.

  • Payden & Rygel – Il punto sui corporate bond Usa

    Payden & Rygel – Il punto sui corporate bond Usa

    A cura di Natalie Trevithick, responsabile delle strategie US Investment Grade di Payden & Rygel

    Milano, 5 ottobre 2023 – I rendimenti dei corporate bond statunitensi hanno superato il 6%. Tuttavia, il brusco rialzo dei tassi di interesse deciso dalla Fed in settembre ha praticamente compensato i rendimenti su base annua dei bond da 1 a 30 anni, i cui ritorni sono ora praticamente nulli. 

    Ciononostante, in prospettiva, dopo aver evitato lo shutdown del governo federale, siamo inclini a ritenere che il ciclo rialzista della Fed stia per concludersi e che i tassi di interesse abbiano ormai raggiunto il loro picco. Pertanto, dal punto di vista degli investimenti, un ampliamento dell’allocazione a favore delle obbligazioni societarie investment-grade potrebbe offrire rendimenti interessanti. Inoltre, se la Fed dovesse optare per un taglio dei tassi già nel corso del prossimo anno, riteniamo che questo compenserebbe l’eventuale allargamento degli spread e potrebbe contribuire a incrementare ulteriormente i rendimenti totali nel 2024.

    In effetti, nonostante la curva dei rendimenti al momento sia ancora invertita, stiamo assistendo a un rafforzamento della domanda per la parte più a lungo della curva: gli investitori, infatti, cercano di “bloccare” rendimenti così interessanti più a lungo e non sono necessariamente disposti ad affrontare il rischio di reinvestimento qualora scegliessero una scadenza più preve, come ad esempio T-bills a 1 anno al 5,5%.

  • Payden & Rygel – 2024: previsioni da favola

    Payden & Rygel – 2024: previsioni da favola

    2024: previsioni da favola

    A cura di Jeffrey Cleveland, Chief Economist di Payden & Rygel

    Milano, 22 settembre 2023 – Il fatto che la Fed, nel corso dell’ultimo meeting di settembre, abbia deciso di mettere in pausa i rialzi dei tassi, non significa che abbia optato per un’inversione della sua politica monetaria restrittiva, anzi la maggior parte dei membri del FOMC prevede un ulteriore aumento dei tassi già entro la fine dell’anno. 

    Dunque, i Fed Funds per ora restano nel range del 5,25-5,5% e i membri del FOMC ritengono che nel lungo periodo il tasso nominale neutrale sui Fed Funds sarà pari al 2,50%, il che significa che il 5,5% può ampiamente rientrare in territorio restrittivo. Tuttavia, come dichiarato dallo stesso Powell nel corso della conferenza stampa post-riunione, “il livello sufficientemente restrittivo dei tassi può essere valutato solo ex post, non in base a un modello” e “è certamente possibile che il tasso neutrale sia attualmente più alto [del 2,50%]“.

    Questa stretta, quindi, potrebbe non essere sufficiente a garantire il raggiungimento del target del 2% di inflazione, anche perché l’accelerazione del PIL Usa nel corso del terzo trimestre, trainato dai consumi, dall’edilizia residenziale e non, sta facendo sorgere qualche dubbio sull’efficacia dell’attuale politica monetaria. Di conseguenza, oltre a un nuovo rialzo dei tassi nel 2023, i membri del FOMC prevedono una riduzione di soli 50 punti base del tasso sui Fed Funds nel 2024, rispetto al taglio di 100 pb che era stato previsto a giugno. I policymaker prevedono una decelerazione del PCE core dall’attuale 4,2% al 2,6% entro la fine del 2024, ma l’ultima volta che il PCE core ha subito una decelerazione di 1,6 punti percentuali su un orizzonte temporale simile è stato nel 2008-2009, quando l’economia statunitense ha attraversato la peggior recessione del dopoguerra (fino a quel momento). All’epoca, il PIL si è ridotto di quattro punti percentuali e il tasso di disoccupazione è salito al 10%. A questo proposito, è interessante notare che per il 2024 i policymaker prevedono che il tasso di disoccupazione aumenterà in misura modesta (dal 3,8% al 4,1%) e il PIL continuerà a crescere a un ritmo moderato (+1,5%): uno scenario molto diverso da quello del 2008-2009. Inoltre, il PCE core ha già subito una forte decelerazione nell’ultimo anno, per cui le previsioni del FOMC implicano una serie di bruschi rallentamenti dell’inflazione di base con ripercussioni negative a livello economico minime o nulle. 

    Pur auspicandoci questo risultato, è invevitabile chiedersi se un altro forte rallentamento dell’inflazione di fondo sia effettivamente probabile. La Storia suggerisce che le probabilità di un rallentamento di 1,6 punti percentuali dell’inflazione core sono scarse, ma, d’altra parte, la stessa Storia non è stata così attendibile nella fase di ripresa post-Covid. Sulla base di queste osservazioni, è probabile che l’inflazione core sarà un po’ più resiliente di quanto sperato dai policymaker, attestandosi intorno al 3,0-3,5% entro la fine del prossimo anno. I tagli ai tassi previsti dalla maggior parte degli investitori e dei politici potrebbero non concretizzarsi se le nostre previsioni sull’inflazione dovessero realizzarsi. Il miglior consiglio è quello di seguire l’esempio di Powell e delle sue dichiarazioni sui tassi: “Siamo consapevoli delle incertezze che porta con sé la valutazione della strategia monetaria. Siamo pronti ad alzare ulteriormente i tassi se opportuno“.

    In ogni caso, eventuali tagli dei tassi sono, al momento, fuori discussione.

    Questo materiale è stato approvato da Payden & Rygel Global Limited, società autorizzata e regolamentata dalla Financial Conduct Authority del Regno Unito, e da Payden Global SIM S.p.A., società di investimento autorizzata e regolamentata dalla CONSOB italiana.

    Questo articolo ha uno scopo puramente illustrativo e non è da intendersi come consulenza fiscale, legale o finanziaria professionale. Vi invitiamo a rivolgervi al vostro consulente fiscale, legale e finanziario per esaminare la vostra situazione specifica. Le dichiarazioni e le opinioni qui riportate sono aggiornate alla data del presente documento e sono soggette a modifiche senza preavviso. Inoltre, le opinioni espresse in questo articolo non sono necessariamente indicative dell’opinione di Payden & Rygel. Questo materiale non può essere riprodotto o distribuito senza l’autorizzazione scritta di Payden & Rygel.

  • Payden & Rygel – Chart of the week – Lasciamo perdere la sfera di cristallo

    Payden & Rygel – Chart of the week – Lasciamo perdere la sfera di cristallo

    Il mercato è ormai concorde nel ritenere che le banche centrali, che si tratti della BCE o della Fed, abbiano terminato il ciclo di rialzi dei tassi: una previsione basata anche sulla convinzione che l’inflazione si stia affievolendo. Anche i futures sui Fed funds stanno prezzando una “normalizzazione” dei tassi da parte della Fed a circa 70 punti base nel corso del prossimo anno.

    Pur riconoscendo i progressi compiuti sul fronte dell’inflazione, però, il futuro appare ancora incerto e lascia spazio allo scetticismo. Il rapporto sull’indice dei prezzi al consumo (CPI) statunitense di agosto, pubblicato questa settimana, ha mostrato un’accelerazione dell’inflazione core (che esclude le componenti alimentare ed energetica), salita allo 0,28% su base mensile dopo l’aumento di appena lo 0,16% di luglio. I servizi core, come ad esempio gli affitti, hanno registrato un aumento dello 0,37% in agosto, il più rapido da marzo.

    Se la lettura del CPI core dovesse rimanere ai livelli di agosto, l’inflazione sarebbe ben al di sopra del 3% anche all’inizio della prossima estate, un livello troppo alto per i gusti della Fed. Uno scenario peggiore poi si aprirebbe qualora l’inflazione accelerasse, come accaduto nel primo trimestre del 2023. Non vogliamo spaventarvi, ma convincervi che sono molti e differenti gli scenari possibili.