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  • Le microplastiche potrebbero innescare l’infiammazione nelle cellule del cervello umano e il medico non può e non deve ignorare queste informazioni

    Le microplastiche potrebbero innescare l’infiammazione nelle cellule del cervello umano e il medico non può e non deve ignorare queste informazioni

    A cura del dr. Giovanni Ghirga

    Un numero crescente di studi suggerisce che le microplastiche nel nostro sangue sono probabilmente in grado di attraversare la barriera emato-encefalica dei mammiferi.

    Risultati preliminari rivelano il potenziale impatto che le microplastiche possono avere una volta che si trovano nel cervello. Inoltre, le microplastiche già depositate sembrano molto più tossiche per le cellule cerebrali umane rispetto a quelle appena depositate.

    “Le implicazioni della nocività delle microplastiche sono particolarmente allarmanti poiché le microplastiche secondarie, esposte in ambienti naturali, inducono una risposta infiammatoria importante nel cervello”, commenta Sung-Kyun Choi, biologo del Daegu Gyeongbuk Institute of Science and Technology (DGIST).

    Siamo completamente circondati dalla plastica. Comunichiamo usando la plastica, mangiamo usando piatti di plastica , beviamo con bicchieri di plastica acqua nelle bottiglie di plastica, indossiamo indumenti che contengono plastica e ancora e ancora … tutto ciò pari a 390 milioni di tonnellate di plastica prodotte solo nel 2021. 

    Ognuna di queste copiose fonti rilascia frammenti noti come microplastiche durante tutta la loro vita, non solo dopo lo smaltimento.

    Esposti a elementi come pioggia, vento e luce solare, questi minuscoli frammenti cambiano forma e struttura prima di mettersi in viaggio nell’organismo e, molto prima di nascere, assorbiamo una polvere di pezzi di plastica “stagionati”.

    Mentre una ricerca precedente ha testato gli effetti che le materie plastiche appena formate hanno sulle nostre cellule cerebrali, il biologo DGIST Hee-Yeon Kim e colleghi hanno invece usato particelle di plastica alterate dal  tempo. I ricercatori hanno esaminato da vicino come le cellule immunitarie del nostro cervello, la microglia , rispondono alle microplastiche alterate derivate dal polistirene rispetto a quelle “fresche” di dimensioni simili.

    Nutrire i topi con microplastiche alterate per sette giorni ha aumentato i livelli di particelle infiammatorie nel sangue. Gli autori hanno anche osservato un aumento della morte cellulare nel cervello. Successivamente i ricercatori hanno confrontato i pezzi di polistirene alterati nelle microglia umane cresciute in laboratorio.

    Le microglia, le quali rappresentano dal 10 al 15 percento delle cellule cerebrali, pattugliano il nostro sistema nervoso centrale alla ricerca di oggetti che non dovrebbero essere lì. Non sorprende che una precedente ricerca intrapresa dal team abbia trovato microparticelle che si accumulano nella microglia del topo.

    Kim e colleghi hanno scoperto che le microplastiche alterate influenzano le proteine coinvolte nella trasformazione degli zuccheri in energia, aumentando la loro espressione nelle cellule microgliali da 10 a 15 volte di più rispetto alle cellule appartenenti ai gruppi di controllo. 

    Le microplastiche hanno anche aumentato di 5 volte le concentrazioni di proteine coinvolte nella morte delle cellule cerebrali.

    Il team sospetta che ciò possa avere a che fare con i cambiamenti che le microplastiche incontrano una volta esposte alla luce solare. Il polistirene assorbe le onde UV, rendendo la plastica più fragile e soggetta a frammentazione. Kim e il team hanno scoperto che il polistirene esposto alle intemperie aveva una superficie maggiore e legami chimici alterati; due proprietà che influenzano la loro reattività.

    Tutto ciò equivale ad una maggiore risposta infiammatoria da parte delle cellule cerebrali, molto più grave di quella prodotta da microplastiche non alterate testate a dosi equivalenti.

    “Abbiamo per la prima volta identificato che la plastica dispersa nell’ambiente subisce un processo di invecchiamento accelerato, trasformandosi in microplastiche secondarie che possono fungere da sostanze neurotossiche, portando a una maggiore infiammazione e morte cellulare nel cervello”, commenta Choi .

    I risultati finora sono stati osservati solo in topi vivi e campioni di tessuto umano in condizioni di laboratorio, ma il fatto che questi inquinanti possano apportare cambiamenti così profondi una volta che hanno raggiunto il tessuto cerebrale, suggerisce fortemente che hanno un impatto sulla nostra salute cerebrale.

    Mentre gli esperimenti si basavano su campioni di piccole dimensioni e alte concentrazioni di microplastica per tenere conto dell’accumulo di microplastica a lungo termine, i ricercatori stanno ora pianificando studi a lungo termine con più campioni e dosi che riflettano meglio le condizioni ambientali nel tempo, per verificare i dati ottenuti.

    “I loro risultati non possono arrivare abbastanza presto poiché le aziende di combustibili fossili hanno investito miliardi di dollari per aumentare ulteriormente la produzione di plastica in questo decennio, a fronte di potenziali riduzioni del consumo di carburante in risposta al cambiamento climatico”.

    Inoltre, questa esplosione della produzione di plastica è sostenuta da sussidi governativiche utilizzano i soldi dei contribuenti.

    Se la nostra salute è in gioco, come suggerisce sempre più la ricerca, anche il modo in cui produciamo, utilizziamo e smaltiamo la plastica richiederà maggiore attenzione.

    Hee-Yeon Kim, Janbolat Ashim, Song Park, Wansoo Kim, Sangho Ji, et al. 

    A preliminary study about the potential risks of the UV-weathered microplastic: The proteome-level changes in the brain in response to polystyrene derived weathered microplastics. Environmental Research, Volume 233, 2023, 116411, ISSN 0013-9351, 

    https://doi.org/10.1016/j.envres.2023.116411.

    (https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S001393512301215X)

    Harvard University. Incontriamo microplastiche ovunque: rifiuti, polvere, tessuti, cosmetici, prodotti per la pulizia, pioggia, frutti di mare, prodotti agricoli, sale da tavola e altro ancora.

    Non c’è da stupirsi che le microplastiche siano state rilevate in tutto il corpo umano, inclusi sangue, saliva, fegato, reni e placenta. Gli investigatori stanno sondando come entrano in altri organi e tessuti dai polmoni e dal tratto gastrointestinale. Le microplastiche più piccole di 1 micrometro, note come nanoplastiche, preoccupano maggiormente i ricercatori perché possono infiltrarsi nelle cellule.

    Utilizzando un modello di rivestimento intestinale umano, un team guidato da Philip Demokritou, direttore del Laboratorio di nanoscienze per la salute ambientale presso la Harvard Chan School, ha scoperto che le nanoplastiche possono entrare nelle cellule in due modi diversi e persino entrare nei nuclei delle cellule.

    Le lezioni dal campo della tossicologia ambientale sollevano bandiere sul cancro e sui problemi riproduttivi. Studi su colture cellulari, fauna marina e modelli animali indicano che le microplastiche possono causare danni ossidativi, danni al DNA e cambiamenti nell’attività genica, rischi noti per lo sviluppo del cancro. 

    Le microplastiche sono state trovate nel latte materno umano e nel meconio, le prime feci di un neonato. Alcuni studi sui topi hanno riscontrato effetti sulla riproduzione come riduzione del numero e della qualità degli spermatozoi, cicatrici ovariche e disturbi metabolici nella prole.

    Le proprietà fisiche delle microplastiche sono una fonte di potenziali pericoli. Alcuni organismi marini sembrano mangiare più microplastiche e meno nutrienti, il che può riverberarsi lungo la catena alimentare. 

    Negli esseri umani i ricercatori indicano malattie causate dall’inquinamento atmosferico da particolato (il quale contiene microplastiche) e dall’esposizione sul posto di lavoro alla polvere di plastica.

    Altre minacce derivano da sostanze chimiche all’interno e sulle particelle di microplastica, compresi i componenti in plastica – come BPA, ftalati e metalli pesanti – i quali sono noti o sospettati di causare problemi al sistema nervoso, riproduttivo e di altro tipo.

    S. Dutchen. Microplastics Everywhere

    The tiny particles are even in our bodies. What might this mean for our health? Harvard Medicine. Spring 2023.

  • Un cervello più piccolo. Un nuovo studio suggerisce un legame tra i cambiamenti climatici passati e un calo delle dimensioni del cervello umano

    Un cervello più piccolo. Un nuovo studio suggerisce un legame tra i cambiamenti climatici passati e un calo delle dimensioni del cervello umano

    a cura del dr. Giovanni Ghirga

    Un cervello più piccolo. Un nuovo studio suggerisce un legame tra i cambiamenti climatici passati e un calo delle dimensioni del cervello umano, una risposta adattiva che emerge in una analisi dei record climatici e dei resti umani in un periodo di 50.000 anni.

    La ricerca dello scienziato cognitivo Jeff Morgan Stibel del Museo di Storia Naturale in California si aggiunge alla nostra comprensione di come gli esseri umani si sviluppano e si adattano in risposta allo stress ambientale.

    “In seguito alle recenti tendenze del riscaldamento globale è fondamentale capire la presenza di un eventuale impatto dei cambiamenti climatici sulle dimensioni del cervello umano e, in definitiva, sul comportamento umano”, commentano gli autori della ricerca.

    Lo studio ha esaminato come le dimensioni del cervello di 298 esemplari di Homo siano cambiate negli ultimi 50.000 anni in relazione alle registrazioni naturali di temperatura globale, umidità e precipitazioni. Quando il clima è diventato più caldo, la dimensione media del cervello è cresciuta significativamente di meno rispetto a quando era più freddo. 

    La precedente ricerca di Stibel sul restringimento del cervello ha motivato questa indagine perché l’autore voleva capire le sue cause alla radice.

    “Capire come il cervello sia cambiato nel tempo negli ominidi è fondamentale, ma è stato fatto pochissimo lavoro su questo argomento”, ha commentato Stibel a Mane Kara-Yakoubian di PsyPost.

    “Sappiamo che il cervello è cresciuto attraverso le specie negli ultimi milioni di anni, ma sappiamo molto poco di altre tendenze macroevoluzionistiche”.

    Stibel ha ottenuto dati sulle dimensioni del cranio da dieci fonti pubblicate separate, per un totale di 373 misurazioni da 298 ossa umane che rappresentano un arco di tempo di 50.000 anni. Ha incluso stime delle dimensioni del corpo che sono state aggiustate per la regione geografica e il sesso per stimare le dimensioni del cervello.

    I fossili sono stati messi in gruppi in base a quanto tempo fa hanno vissuto e Stibel ha condotto la sua ricerca utilizzando quattro diversi intervalli di età fossile di 100 anni, 5.000 anni, 10.000 anni e 15.000 anni per aiutare a spiegare gli errori di datazione.

    Successivamente ha confrontato le dimensioni del cervello con quattro record climatici, compresi i dati sulla temperatura dell’European Project for Ice Coring in Antarctica (EPICA) Dome C. Il nucleo di ghiaccio di EPICA Dome C fornisce misurazioni accurate della temperatura superficiale che risale a più di 800.000 anni fa.

    Negli ultimi 50.000 anni c’è stato l’ultimo massimo glaciale il quale ha fatto sì che le temperature medie fossero costantemente più fredde fino alla fine del Pleistocene tardivo. L’Olocene ha poi visto aumentare le temperature medie, portandoci ai giorni nostri.

    Le analisi hanno mostrato un modello generale di cambiamento delle dimensioni del cervello in Homo, il quale è correlato al cambiamento climatico con l’aumento e il calo delle temperature. Gli esseri umani hanno avuto un notevole calo delle dimensioni medie del cervello, pari a poco più del 10,7 per cento, durante il periodo di riscaldamento dell’Olocene.

    “I cambiamenti delle dimensioni del cervello sembrano avvenire migliaia di anni dopo i cambiamenti climatici e questo è particolarmente pronunciato dopo l’ultimo massimo glaciale, circa 17.000 anni”, spiega Stibel nel suo articolo.

    “Mentre l’adattamento al clima si svolge all’interno di una singola generazione e la selezione naturale può avvenire in poche generazioni successive, l’adattamento a livello di specie spesso richiede molte generazioni successive”.

    Questo modello evolutivo è avvenuto in un periodo di tempo relativamente breve che va da 5.000 a 17.000 anni e le tendenze suggeriscono che il riscaldamento globale in corso potrebbe avere effetti dannosi sulla cognizione umana.

    “Anche una leggera riduzione delle dimensioni del cervello tra gli esseri umani esistenti potrebbe avere un impatto materiale sulla nostra fisiologia in un modo che, purtroppo, a tutt’oggi non è completamente compreso”, sostiene Stibel nel suo articolo.

    L’analisi ha mostrato che anche i livelli di umidità e precipitazioni hanno avuto un effetto sulla crescita del cervello. Mentre la temperatura è un fattore più significativo, l’autore ha trovato una debole correlazione tra periodi di siccità e volumi cerebrali leggermente più grandi legato alle differenze nelle dimensioni del cervello, ma il clima non sembra tenere conto di tutte le variazioni evolutive.

    Secondo Stibel, fattori ecosistemici come la predazione, effetti climatici indiretti come la vegetazione e la produzione primaria netta o fattori non climatici come la cultura e la tecnologia potrebbero tutti contribuire ai cambiamenti nelle dimensioni del cervello.

    “I risultati suggeriscono che il cambiamento climatico è predittivo delle dimensioni del cervello dell’Homo e alcuni cambiamenti evolutivi nel cervello possono essere una risposta allo stress ambientale”, conclude Stibel.

    Lo studio è stato pubblicato su Brain, Behavior and Evolution.

    Comment on ScienceAlert, by R. Dyer. 2 July 2023

  • La plasticità del cervello prosegue dopo molto anni dalla nascita

    La plasticità del cervello prosegue dopo molto anni dalla nascita

    LA PLASTICITÀ DEL CERVELLO INIZIA DALLA NASCITA E PROSEGUE PER MOLTI ANNI
    La Società Italiana di Neurologia diffonde i risultati di un importante studio scientifico sulla capacità di riconoscimento dei volti che dimostra la plasticità del cervello fin quasi ai 30 anni

    Roma, 8 febbraio 2017 – Uno studio pubblicato a gennaio su Science mette in relazione diretta nell’essere umano lo sviluppo della capacità di riconoscere i volti con lo sviluppo anatomico di una regione specializzata della corteccia cerebrale, individuabile nella faccia inferiore del lobo temporale1.
    L’analisi, realizzata mediante avanzatissime tecniche di risonanza magnetica, ha permesso di verificare come una abilità sempre maggiore nel riconoscimento dei volti, a partire dall’infanzia fin quasi ai 30 anni, si associa ad un aumento delle dimensioni di questa regione del cervello.

    “Questo studio – afferma il Prof. Stefano Cappa, specialista della Società Italiana di Neurologia – è la prova che la plasticità del cervello continua per molti anni dopo la nascita e, addirittura dopo l’adolescenza. Finora, invece, l’orientamento della comunità scientifica concordava sul fatto che la plasticità cerebrale fosse particolarmente marcata solo nei primi anni di vita dell’uomo”.

    Il fatto che l’aumento delle dimensioni del cervello sia specifico della parte che interessa il riconoscimento dei volti, e non riguarda una regione vicina, specializzata per il riconoscimento dei luoghi, conferma il ruolo centrale che la capacità di riconoscere gli altri ha per la nostra specie che, infatti, risulta eccellere in questa abilità.

    Bibliografia
    1Gomez et al, “Microstructural proliferation in human cortex is coupled with the development of face processing”, Science 5 january 2017

  • Il  laser per la rimozione chirurgica delle lesioni cerebrali profonde

    Il laser per la rimozione chirurgica delle lesioni cerebrali profonde

    Roma, 10 settembre – “Negli ultimi dieci anni la tecnologia laser (LITT), grazie al miglioramento delle apparecchiature e l’uso di un monitoraggio costante dei cambiamenti di temperatura dell’encefalo in risonanza si è diffusa sempre di più”, afferma lo scienziato e ricorda che è stata sperimentata, per la prima volta sul tumore del fegato e poi sull’encefalo .

    [easy_ad_inject_1]Il primo ad applicarla, a Parigi sei anni fa, fu Alexander Carpentier e racconta che da allora, l’uso dei laser si è diffuso in tutto il mondo come modalità terapeutica innovativa e la letteratura scientifica in merito è cresciuta notevolmente.

    “Questa metodica – illustra Schulder – trova applicazione non solo per le lesioni encefaliche profonde, ma anche per quelle più superficiali. Negli Stati Uniti e in parte nel resto del mondo, la LITT viene utilizzata nel trattamento dell’epilessia refrattaria a farmaci, come alternativa alla neurochirurgia convenzionale, preservando funzioni di pensiero, memoria e linguaggio. La LITT è stata applicata in caso di metastasi cerebrali, tumori intracerebrali o lesioni intracraniche compressive, come i tumori dell’ipofisi , prevenendone la crescita. Ma può essere sperimentata anche nella neurochirurgia funzionale, come nel trattamento del tremore essenziale, della malattia di Parkinson e di disturbi psichiatrici”.

    Per il neurochirurgo americano il miglioramento della strumentazione e il monitoraggio continuo del paziente in sala operatoria mediante risonanza, permetterà una maggiore adozione di questa tecnica tra i neurochirurghi.
    L’esperto conclude dicendo che “sono gli stessi pazienti e le loro famiglie che richiedono queste tecnologie sempre meno invasive.”

  • Dieta e malattie neurologiche: parte l’edizione 2015 della Settimana Mondiale del Cervello

    Dieta e malattie neurologiche: parte l’edizione 2015 della Settimana Mondiale del Cervello

    Settimana Mondiale del Cervello 2014Milano, 13 marzo 2015 – “Nutrire il cervello. Dieta e malattie neurologiche” al centro della V° edizione della Settimana Mondiale del Cervello dal 16 al 22 marzo 2015 in tutta Italia. In un momento in cui, grazie anche a Expo Milano 2015, l’opinione pubblica è particolarmente sensibile alle questioni concernenti l’alimentazione, la SIN, Società Italiana di Neurologia, intende sottolineare l’importanza della nutrizione nel proteggere il nostro cervello dall’insorgere precoce dei disturbi cognitivi e delle demenze. Se infatti fino a non molto tempo fa si riteneva che il funzionamento della mente dipendesse unicamente dalla dotazione genetica, oggi si può affermare che non solo non è così, ma che al contrario fattori ambientali di tipo alimentare, fisico e cognitivo rivestono un ruolo fondamentale.

    [easy_ad_inject_1]“Il ruolo della prevenzione – sostiene il Prof. Aldo Quattrone, Presidente della SIN – è cruciale nel caso delle malattie neurodegenerative; in ambito neurologico la prevenzione passa in primo luogo attraverso un corretto nutrimento del cervello, da intendersi tanto in senso stretto, come accorta e sana alimentazione, quanto in senso più ampio, come esercizio fisico e allenamento intellettuale, entrambe buone pratiche per prevenire l’invecchiamento cerebrale”.

    Gli esperti puntano poi il dito su quegli alimenti che possono avere un ruolo nella genesi dei disturbi neurologici o che possono incidere negativamente su condizioni preesistenti. La Settimana Mondiale del Cervello fa il punto sulle raccomandazioni alimentari e sui nutrienti con valore terapeutico in presenza di determinate patologie del sistema nervoso.

    Di seguito i temi affrontati quest’anno dagli esperti della Società Italiana di Neurologia in occasione della Settimana Mondiale del Cervello.

    La levodopa è il più importante farmaco utilizzato per la cura della Malattia di Parkinson. I pasti, specie se ricchi di proteine, possono interferire sia con l’assorbimento della levodopa, sia con il suo ingresso nel cervello contribuendo alla diminuita efficacia del farmaco.

    Vi sono numerose ragioni per ritenere importante l’uso di una dieta prevalentemente vegetariana a basso contenuto proteico nella Malattia di Parkinson. La ragione più importante è quella di facilitare l’assorbimento della levodopa contrastando così la diminuita efficacia post-prandiale che si osserva specie nelle fasi avanzate della malattia, causa di disabilità e rischio di cadute.
    I prodotti vegetali, inoltre, garantiscono un ricco apporto di fibre e l’elevato contenuto di carboidrati tipico di questo regime alimentare contrasta la perdita di peso corporeo che spesso affligge i pazienti con MP a causa dell’effetto combinato dei movimenti involontari e della difficoltà nella deglutizione. I cibi vegetali sono inoltre più facili da masticare, caratteristica fondamentale per pazienti nello stadio medio-avanzato del parkinsonismo, che presentano problemi di deglutizione. Infine, i minerali e le vitamine di cui i cibi vegetali sono ricchi, sono fondamentali per soddisfare il maggior fabbisogno di tali micronutrienti (soprattutto Vitamina C, D, E, ferro, calcio e magnesio) dei pazienti con MP. Da queste considerazioni nascono alcune indicazioni dietetiche per migliorare la motilità dei malati parkinsoniani in terapia con levodopa seguendo una dieta bilanciata e caloricamente adeguata al mantenimento del “peso salute”.

    Un’alimentazione povera di colesterolo e ricca di fibre, vitamine ed antiossidanti presenti in frutta e verdura e di grassi insaturi contenuti nell’olio di oliva (la cosiddetta dieta mediterranea) riducono l’incidenza anche della malattia di Alzheimer come dimostrato in studi di popolazione su ampie casistiche. Alcune carenze vitaminiche, in particolare di folati e vitamina B12, possono facilitare l’insorgenza di demenza, e questo appare mediato da un aumento di omocisteina, sostanza che risulta tossica per i vasi ed i neuroni. Gli antiossidanti presenti nella dieta ricca di frutta e verdura (vitamine C ed E, licopeni, antocianine) contrastano l’accumulo di “radicali liberi” prodotti dalle interazioni della proteina beta amiloide con le strutture cellulari. Anche un moderato consumo di caffè e di vino rosso, con le numerose sostanze antiossidanti contenute, sembrerebbero avere un ruolo protettivo nei confronti dello sviluppo della demenza e sono in corso attualmente degli studi di popolazione destinati a confermare tali ipotesi.

    Oltre ad una dieta sana, un ulteriore meccanismo naturale di protezione è il sonno, che, come recentemente scoperto, faciliterebbe la rimozione di proteine tossiche dal cervello riducendo l’accumulo di beta-amiloide e i suoi meccanismi di tossicità.

    Benché il beneficio di una dieta ipocalorica nella prevenzione della Sclerosi Multipla, ipotizzato in passato senza solide basi scientifiche, sia stato smentito, sembra ormai dimostrato come una dieta ricca di grassi insaturi sia in grado di modulare e diminuire l’attività infiammatoria legata a questa patologia, svolgendo una funzione neuro-protettiva. Inoltre, se si considera che uno dei meccanismi causali della SM è il danno ossidativo, appare fondamentale prediligere una dieta ricca di alimenti con proprietà anti-ossidanti, contenenti vitamina A, E, C, e acido lipoico.

    Un ruolo di particolare importanza nella SM è svolto dalla vitamina D, con le sue importanti funzioni immunomodulatorie: la patologia sembra infatti più frequente in aree a minore esposizione ai raggi solari. A questo proposito, sono in corso trial randomizzati verso placebo per rispondere al quesito sul possibile effetto benefico della integrazione di vitamina D nella dieta. Va comunque sottolineato che in genere le persone con SM soffrono di osteoporosi, per la immobilità, la frequente terapia con steroidi e la scarsa esposizione ai raggi solari, per cui una terapia con vitamina D e calcio può trovare, in alcuni casi, una sua giustificazione come terapia preventiva del rischio di fratture.

    Per quanto riguarda le patologie cerebrovascolari, un’alimentazione ispirata alla dieta mediterranea e con un basso contenuto di sodio è un elemento cardine della prevenzione primaria dell’ictus, dato sottolineato da tutte le più recenti linee guida. Se da un lato vi sono nutrienti da consumare moderatamente, sodio, alcol e grassi saturi, poiché associati a un maggiore rischio vascolare, per altri nutrienti è stato riscontrato un effetto protettivo: Omega -3, fibre, Vitamina B6 e B12, cosi come l’assunzione di Calcio e Potassio, attraverso la mediazione della pressione arteriosa diminuiscono il rischio di ictus cerebrale.

    La carenza di determinati macronutrienti e micronutrienti, tra cui soprattutto vitamine del gruppo B e proteine, può provocare danni a carico delle strutture nervose. Basti pensare al caso dell’epidemia di neurite ottica che colpì la popolazione cubana agli inizi degli anni Novanta, quando, a causa delle restrizioni alimentari imposte dall’embargo statunitense, fu impossibile assumere livelli adeguati di proteine, vitamine e minerali. Ma è quanto si può verificare anche nel caso di un regime alimentare vegetariano seguito da quasi 4 milioni di italiani, che se da un lato si è dimostrato in grado di prevenire patologie cardiovascolari o diabete, dall’altro rischia, soprattutto nella sua declinazione vegana (400.000 persone in tutta Italia), di determinare serie carenze di alcuni nutrienti essenziali, come oligoelementi e vitamine. In particolare, la carenza di vitamina B12 determina sia un aumento dei livelli plasmatici di omocisteina, sostanza associata all’incremento del rischio di demenza e di malattie cerebro-vascolari, sia un aumento dei livelli di S-adenosil-metionina, che favorisce l’insorgenza di disturbi di tipo mielopatico e neuropatico.

    Altro tema di rilievo, oltre alla nutrizione stricto sensu, è quello dei fattori ambientali di tipo cognitivo, sociale e affettivo intesi come fattori “nutritivi” del cervello durante il corso dell’intera vita.
    Appare sempre più evidente come la densità dei contatti sinaptici in grado di generare network cerebrali alternativi, ovvero la cosiddetta Riserva Cognitiva, che dipende da istruzione, rapporti sociali e attività lavorative, sia funzionale a mantenere il cervello attivo e controbilanciare, nel caso delle neurodegenerazioni, la perdita progressiva dei neuroni. Si può mantenere o addirittura migliorare il proprio attuale livello di prestazioni intellettuali attraverso il lifelong learning, il processo di apprendimento permanente, che ha come scopo quello di modificare o sostituire un apprendimento non più adeguato rispetto ai nuovi bisogni sociali o lavorativi, in campo professionale o personale.

    In occasione della Settimana Mondiale del Cervello, la Società Italiana di Neurologia prevede, anche per questa edizione, l’organizzazione sul territorio nazionale di incontri divulgativi, convegni scientifici, attività per gli studenti delle scuole elementari e medie, oltre all’iniziativa “Neurologia a porte aperte”, che prevede visite guidate dei reparti e dei laboratori ospedalieri.

    Il dettaglio delle iniziative italiane della Settimana Mondiale del Cervello è consultabili online, all’indirizzo www.neuro.it.

    La Settimana Mondiale del Cervello (Brain Awareness Week, BAW) è promossa a livello internazionale dalla European Dana Alliance for the Brain in Europa e dalla Dana Alliance for the Brain Initiatives e dalla Society for Neuroscience negli Stati Uniti. Ad essa aderiscono ogni anno Società Neuroscientifiche di tutto il mondo – tra cui, dal 2010, anche la Società Italiana di Neurologia – oltre a numerosissimi enti, associazioni di pazienti, agenzie governative, gruppi di servizio ed organizzazioni professionali di oltre 82 Paesi.

    Società Italiana di Neurologia

  • Ricerca fa luce su meccanismi biochimici che regolano il funzionamento del cervello

    Ricerca fa luce su meccanismi biochimici che regolano il funzionamento del cervello

    Settimana Mondiale del Cervello 2014
    Cervello

    Varese, 30 gennaio 2015 – Una ricerca firmata dall’Università degli Studi dell’Insubria insieme a un team internazionale e pubblicata dalla prestigiosa rivista statunitense Proceedings of the National Academy of Sciences USA PNAS fa luce sui meccanismi biochimici che regolano il funzionamento del cervello. Definire i meccanismi che concorrono alla regolazione dell’attività dei recettori per l’NMDA è fondamentale non solo per comprendere il funzionamento del cervello, ma anche per studiare malattie neurologiche e psichiatriche: questi recettori, infatti, sono implicati in una serie di funzioni fondamentali del cervello tra le quali l’apprendimento, la memoria e il controllo dell’attività motoria.

    [easy_ad_inject_1]Lo studio – scaturito dalla collaborazione tra ricercatori francesi, tedeschi, israeliani e il laboratorio di Post-genomica funzionale ed ingegneria proteica del Dipartimento di Biotecnologie e Scienze della Vita dell’Università dell’Insubria – ha chiarito l’importanza e il ruolo relativo di due molecole, la D-serina e la glicina, nell’attivazione dei recettori NMDA e nella regolazione dei processi fisiologici in cui sono implicati, che servirà a migliorare le conoscenze relative a malattie psichiatriche e neurologiche, come la schizofrenia, ma anche a contrastare gli effetti dell’invecchiamento.

    «Lo studio pubblicato ha permesso di concludere che l’identità del coagonista (D-serina rispetto a glicina) che regola l’attività di questa importante classe di recettori dipende dal tipo di sinapsi ed è regolato durante lo sviluppo. Tale cambiamento coincide con la composizione in subunità dei recettori NMDA a livello post-sinaptico e con la maturazione della sinapsi stessa. Definire i meccanismi che concorrono alla regolazione dell’attività di questi recettori è fondamentale per comprendere il funzionamento del cervello e per studiare malattie neurologiche e psichiatriche» spiega il professor Loredano Pollegioni, direttore del centro di ricerca interuniversitario “The Protein Factory”. «Chiarire il ruolo dei neuromodulatori, ossia le molecole segnale che agiscono su diverse regioni del cervello ci aiuterà a chiarire i complessi meccanismi che ne controllano il funzionamento e a trovare nuove terapie per pazienti affetti da importanti patologie come la schizofrenia, il disturbo bipolare o il dolore neuropatico».

    Questo lavoro segue altre tre recenti pubblicazioni dello stesso gruppo, con collaborazioni nazionali ed internazionali, relative al ruolo di D-serina e glicina: sulle riviste Nature Communication e Brain nel 2013 e sulla prestigiosa rivista Cell nel 2012.

    Queste ricerche sono state possibili grazie alla messa a punto di specifici sistemi analitici: la dottoressa Silvia Sacchi e il professor Loredano Pollegioni dell’Università degli studi dell’Insubria hanno sviluppato, mediante tecniche di ingegneria proteica, enzimi in grado di riconoscere efficientemente e selettivamente i diversi neuromodulatori e hanno messo a punto delle sofisticate tecniche analitiche. Questi risultati sottolineano il grado di eccellenza della ricerca nel settore delle biotecnologie applicate alle neuroscienze (e più in generale alla salute umana) dei ricercatori del Dipartimento di Biotecnologie e Scienze della Vita dell’Università dell’Insubria.
    Università degli Studi dell’Insubria

  • Tumori cerebrali più negli uomini che nelle donne, grazie alla proteina RB

    Cervello umano
    Cervello umano

    Un recente studio, condotto dai ricercatori della Washington University di St. Louis, nel Missouri, ha trovato una spiegazione del perché alcuni tipi di tumori cerebrali sono prevalentemente più comuni negli uomini che nelle donne. I ricercatori, attraverso alcuni esperimenti, hanno verificato che le donne risultano più protette rispetto agli uomini dall’insorgenza di alcuni tipi di tumore al cervello grazie ad una proteina, la proteina retinoblastoma (RB), che aiuta a ridurre il rischio di cancro, e che risulta essere meno attiva nelle cellule del cervello maschile.

    “Questa è la prima volta che qualcuno sia riuscito ad individuare una differenza legata al sesso che influenza il rischio di tumore ed è intrinseco alle cellule, e questo è molto emozionante”, ha dichiarato l’autore della ricerca, Joshua Rubin, MD, PhD, in una nota stampa. “Questi risultati suggeriscono che dobbiamo tornare indietro e guardare a più percorsi legati al cancro, controllando anche le differenze di sesso. Distinzioni di sesso, a livello della cellula possono non solo influenzare il rischio di cancro, ma anche l’efficacia dei trattamenti.”
    I risultati della ricerca, pubblicati nel Journal of Clinical Investigation (JCI), hanno dimostrato che la proteina RB è meno attiva nelle cellule cerebrali maschili che in quelle femminili, e ciò può spiegare perché gli uomini sono più esposti all’insorgenza di tumori cerebrali, come ad esempio il glioblastoma, la forma più aggressiva di tumore al cervello.
    Lo studio fornisce ai ricercatori una migliore comprensione dei meccanismi attraverso i quali il cancro si sviluppa e si diffonde, che possono aiutarli a sviluppare terapie più efficaci ed eseguire studi clinici mirati.

  • Tumore al cervello, due proteine avviano la crescita del glioblastoma

    Cervello umano
    Cervello umano

    Il glioblastoma è la forma di tumore più frequente e maligna che colpisce il sistema nervoso centrale, in media rappresenta circa il 15% di tutti casi di tumore al cervello e colpisce in particolare soggetti tra i 45 e i 70 anni. La sopravvivenza a questo tipo di tumore mediamente è inferiore ai due anni. Questo tipo di neoplasia colpisce oltre 1200 persone all’anno in Italia ed è più frequente negli uomini che nelle donne e la chirurgia, combinata ai trattamenti radio e chemioterapici, purtroppo non è ancora in grado di curare questa forma di tumore al cervello. Ma la ricerca sta facendo grandi passi per mirare a nuove terapie.

    E’ infatti notizia di oggi che alcuni ricercatori della McGill University di Montreal in Canada, in collaborazione con l’Ospedale di Treviso, l’Istituto di genetica e biofisica Adriano Buzzati Traverso di Napoli e l’Hotchkiss Brain Institute dell’Università di Calgary (Canada), in uno studio di cui è primo autore Alessandro Perin, neurochirurgo dell’Istituto Neurologico Besta di Milano, hanno individuato due nuove proteine responsabili della crescita del glioblastoma, come detto il tipo più aggressivo dei tumori al cervello. (altro…)

  • Ricerca. La sedentarietà incide negativamente sul cervello

    Cervello umano
    Cervello umano

    Essere pigri e sedentari modificherebbe la struttura del cervello con la creazione di nuove cellule cerebrali e l’alterazione della forma di alcuni neuroni innescando moltissime patologie. A dimostrarlo sarebbe uno studio condotto dai ricercatori della Wayne State University School of Medicine e pubblicato sulla rivista scientifica “The Journal of Comparative Neurology”. (altro…)