A cura di Marco Piersimoni, Senior Investment Manager di Pictet Asset Management
13.11.2023
Le previsioni sulla congiuntura globale sono diverse rispetto a quelle dello scorso giugno: da entrambi i lati dell’Atlantico le attese sono di crescita moderata e inflazione sotto controllo, il migliore dei mondi possibili per gli investimenti, anche perché la politica restrittiva delle banche centrali sembra arrivata al capolinea. Si possono trovare opportunità sia nell’equity sia nei bond. Fari su obbligazioni governative USA a lungo termine, i soliti noti di Wall Street e sul lusso europeo; titoli energetici come copertura dai rischi geopolitici.
Le ombre nere di una possibile recessione d’autunno, che fino a giugno si stagliavano minacciose contro l’economia globale, sembrano svanite. Le previsioni per il 2024 sono tutte a favore di un soft landing, caratterizzato da crescita congiunturale moderata e inflazione sotto controllo. Per gli Usa la Fed delinea una proiezione di crescita del PIL dell’1,5% e un tasso di inflazione del +2,5%, con il consenso degli analisti che si attesta leggermente al di sotto di queste cifre (+1% la previsione di crescita del Pil e +2,7% quella dell’inflazione). Per quanto riguarda l’Europa, Bce e analisti sono allineati con queste aspettative, in quanto prevedono una crescita moderata e un’inflazione non problematica. Segnatamente, l’Eurotower stima il Pil in aumento dell’1%, l’inflazione al +3,2% e il consenso rispettivamente a +0,7% e +2,7%.
Il Fondo Monetario Internazionale, che si è riunito a Marrakech a ottobre, nell’ultimo outlook sull’economia globale ha confermato previsioni simili: nel 2024 il PIL degli Usa aumenterà del +1,5% e quello europeo del +1,2%. Ma il dato che deve essere sottolineato ancora una volta è che, soprattutto per gli Stati Uniti, le stime suggeriscono una crescita del PIL accompagnata da un calo dell’inflazione, il che rappresenta una delle migliori combinazioni possibili. Anche in area Euro, nonostante i ritardi nella fase ciclica e la nuova fiammata dei prezzi energetici, ci sono molte indicazioni che suggeriscono una tendenza deflazionistica anche nel Vecchio Continente: uno scenario che inizia a essere condiviso anche dagli economisti più hawkish.
Effetto Covid: l’onda lunga della pandemia condiziona ancora i mercati
Le previsioni sul ritracciamento dell’inflazione sono rafforzate anche dall’osservazione dell’impatto che il COVID-19 ha avuto sulla dinamica di domanda e offerta. In altre parole, poiché l’inflazione deriva principalmente dagli eventi straordinari del biennio pandemico, la loro conclusione dovrebbe accompagnarsi a una mitigazione anche dei prezzi. Durante la pandemia, infatti, la domanda è stata compressa dai lockdown estesi, mentre l’offerta si è ridotta a causa delle interruzioni nelle catene di approvvigionamento. In risposta sono state adottate politiche economiche ultra accomodanti per risollevare l’economia, stimolando una crescita esplosiva e, come conseguenza, un aumento dell’inflazione nel 2021-2022.
Nel 2022 le misure di stimolo sono state gradualmente ridotte e la domanda si è normalizzata. Al momento stiamo assistendo anche a una normalizzazione dell’offerta, uno sviluppo del tutto positivo perché contribuisce a contenere l’inflazione senza compromettere la crescita economica. Attualmente, la maggior parte delle voci di spesa nel paniere del consumatore statunitense mostra un aumento delle quantità e prezzi stabili.
Figura 1
Persistono alcuni elementi di incertezza per le aziende, le cui emissioni a costo zero arriveranno a scadenza nel 2025
Nonostante il quadro generale sia abbastanza positivo, persistono elementi di preoccupazione, per due motivi. In primo luogo, si ritiene che la robusta crescita economica conservi tracce residue dell’eredità della pandemia, possa, cioè, essere in parte dovuta all’eccesso di risparmio accumulato durante i lockdown dalle famiglie e poi riversato sull’economia massicciamente alla fine della crisi. Quella liquidità si è poi esaurita contestualmente all’arrivo dell’inflazione. Lato imprese, invece, molte di loro hanno emesso obbligazioni aziendali a tassi di interesse molto bassi durante la lunga fase di politiche monetarie accomodanti. Queste obbligazioni arriveranno a scadenza e dovranno essere rifinanziate a tassi più elevati tra il 2025 e il 2026, con conseguente aumento dei costi a carico delle imprese, elementi che potrebbero compromettere la crescita: non a caso, l’attenzione del mercato finanziario si sta spostando dalla paura dell’inflazione al timore di una crescita economica insufficiente.
Dove andranno i tassi di interesse? Il ciclo restrittivo sembra giunto al capolinea
I tassi di interesse sono un argomento chiave in questo contesto. La Bce ha interrotto il ciclo di rialzi per la prima volta dal 2022; la Fed potrebbe avere margine per un ultimo aumento nel 2023, ma gli utili dati e le ultime comunicazioni di Powell lasciano immaginare che anche negli USA il ciclo di rialzi abbia sia terminato. Esiste un disallineamento nelle previsioni sulla direzione della politica monetaria dei prossimi mesi: nel 2024 la Fed prevede due tagli e il mercato ne stima più di tre; mentre dal 2025 la situazione si inverte con il mercato che si colloca su un livello di tassi superiore a quello della Fed, guardando già al tasso terminale.
Figura 2
Come orientarsi, quindi? Una risposta è possibile trovarla nelle curve obbligazionarie. I mercati obbligazionari hanno attraversato un periodo di volatilità a partire dalla metà di agosto, con un aumento dei tassi e la contemporanea correzione dell’equity. È importante comprendere le ragioni di questa turbolenza. Contrariamente alle aspettative, la causa principale di questa situazione non è l’inflazione, che si è attestata su livelli inferiori rispetto alla fine di giugno; al contrario, è la curva dei tassi reali che ha superato il 2,50% su tutte le scadenze. I tassi reali a lungo termine dipendono da considerazioni di lungo termine: riflettono la velocità di crociera dell’economia, dipendono da fattori strutturali come demografia e produttività. Attualmente sono oltre un punto al di sopra dei valori di giugno, nonostante il recupero delle prime giornate di novembre. Difficile trovare spiegazioni convincenti, ma è importante notare come una parte consistente di questi movimenti sia dovuta a fattori tecnici (emissioni, comportamento istituzioni estere). È quindi legittimo aspettarsi una stabilizzazione del mercato obbligazionario, soprattutto per quanto riguarda le scadenze lunghe della curva americana.
Nel medio termine le azioni battono i bond
Per capire come questo quadro macro influirà sui mercati dobbiamo partire dall’assunto che la straordinaria condizione di correlazione tra azioni ed obbligazioni sperimentata nel 2022 e nei tre mesi appena passati del 2023 (agosto-ottobre) sia destinata a non ripetersi. Lo scenario diventa gestibile in termini di costruzione di portafoglio nel momento in cui si transita dalla paura dell’inflazione alla preoccupazione per la crescita economica. Gli investitori che puntano sulla decorrelazione tra diverse classi di attività nel 2024 possono trovare opportunità sia nel mercato azionario sia in quello obbligazionario, tenendo conto dei diversi fattori di rischio e rendimento.
Un confronto tra i rendimenti attesi delle azioni e delle obbligazioni evidenzia alcune considerazioni chiave. Attualmente, il rendimento atteso delle azioni, con un rapporto prezzo/utili (P/E) di 20, è del 5%, mentre il rendimento reale delle obbligazioni è del 2,3%. Questa differenza implica un rendimento aggiuntivo del 2,7% rispetto alle obbligazioni, che è ai minimi dal 2002 e visto da solo renderebbe l’acquisto di obbligazioni più attraente rispetto alle azioni. Questo vale se si limita lo sguardo al lato della “domanda”, ovvero paragonando dinamicamente due attività finanziarie concorrenti. Tuttavia, spostandoci sul fronte dell’offerta, interviene un altro fattore: il numero di azioni disponibili sul mercato negli ultimi 20 anni si è paradossalmente ridotto, mentre il numero di obbligazioni sovrane, societarie e finanziarie è continuato ad aumentare. La scarsità di offerta di azioni è in gran parte attribuibile ai programmi di acquisto di azioni proprie (“buyback”) condotti dalle grandi società tecnologiche, dai farmaceutici, dalle banche e dalle aziende energetiche. Dei circa 2000 mila miliardi di dollari di utili delle società dell’S&P 500 i buyback rappresentano una cifra pari alla metà: poco meno di un trilione di dollari di riacquisto di azioni proprie all’anno. Questo aspetto può alterare il confronto del rendimento relativo tra azioni ed obbligazioni oggi rispetto agli ultimi dieci anni. Infatti, se guardiamo ai multipli di aziende come Google, che attualmente opera con un rapporto P/E previsto del 18 rispetto agli utili del 2024, o Meta (P/E 2024 a 17) è evidente che siano leggermente più care rispetto al mercato nel suo insieme (a quota 14). Ma si tratta di una differenza allineata a quello degli ultimi dieci anni. Estendendo il ragionamento alle cosiddette “magnifiche 7” (Apple, Microsoft, Google, Meta, Nvidia, Amazon, Tesla), si vede come, a dispetto di valutazioni generose come lo sono state in media, si ottiene una crescita degli utili vastamente superiori.
Figura 3
D’altro canto, sul fronte obbligazionario gli alti rendimenti comportano rischi aggiuntivi, in particolare quello di volatilità, che si è attestato per questa asset class nell’ordine del 10-15%, non collimando con il profilo di un rischio moderato di chi acquista sul mercato obbligazionario. In conclusione, è importante sottolineare come ci siano opportunità sia sul mercato azionario sia su quello obbligazionario: diventa sempre più concreta la possibilità di investire su entrambe le attività, visto che è sempre più vicino un mondo di correlazioni più utili alla costruzione di portafoglio.