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Una speranza per le malattie neurodegenerative arriva dal laser

laser florence
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Migliorare la qualità della vita dei pazienti affetti da disturbi neurodegenerativi si può: una risposta arriva proprio dal laser, capace di indurre progressi nelle capacità cognitive e relazionali, permettendo di ridurre l’impegno dei familiari nell’assistenza al paziente colpito.

Firenze, 6 novembre 2015 – Le malattie neurodegenerative, come ad esempio Alzheimer, Parkinson e la malattia di Creutzfeldt-Jakob, nota anche come morbo della mucca pazza, sono tutte causate dalla formazione di placche di proteine normalmente presenti del cervello che si presentano in forma aggregata, bloccando le funzioni dei neuroni e causando i sintomi tipici di queste malattie, tra cui la demenza senile.

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[easy_ad_inject_1]Al momento i trattamenti disponibili sono basati sull’uso di farmaci ritenuti piuttosto tossici da alcuni studiosi.

La novità sul trattamento di queste patologie arriva dagli Stati Uniti; a Buffalo, infatti, l’equipe composta da William Stephan, Louis J. Banas, Ronald Aung Din e Giovanni Thomas ha osservato per cinque anni l’evoluzione della malattia in oltre 30 pazienti trattati con l’irradiazione della pre-corteccia frontale, del lobo temporale e delle regioni dell’ippocampo e del Circolo di Willis per una durata di due minuti e mezzo ogni 48 ore per 6 trattamenti.

Il trattamento prevede l’utilizzo contemporaneo di più laser di diversa lunghezza d’onda, a dosi non chirurgiche.

I pazienti selezionati, affetti da Alzheimer, demenza vascolare, lesioni cerebrali post-traumatiche e altre malattie neurodegenerative, hanno mostrato alcuni significativi indici di miglioramento della funzione cognitiva e della personalità, con un generale miglioramento della qualità di vita e un aumentato senso di benessere, dovuto anche al recupero di alcuni sensi perduti durante la malattia (come ad esempio l’olfatto).

Risultati simili si sono riscontrati in un recente studio pilota in Giappone, dove 15 pazienti sono stati trattati e seguiti per un anno. Questa modalità terapeutica non invasiva e non sistemica potrebbe in un prossimo futuro svolgere un ruolo chiave nel trattamento di condizioni neurodegenerative progressive, con miglioramento generale della qualità della vita e una sensibile riduzione dei costi sanitari.

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