A cura di Carlo Benetti, Market Specialist di GAM (Italia) SGR
È stata la settimana delle banche centrali. Anzi, la settimana di un vero e proprio poker di banche centrali, una mano di quattro verdetti diversi come i semi del mazzo di carte.
Il primo asso è stato quello della banca centrale cinese. La settimana è cominciata con la decisione a sorpresa della Banca del Popolo di tagliare il tasso repo a sette giorni (funzionale alla liquidità a breve termine nel sistema bancario), una mossa che segnala l’attenzione delle autorità monetarie alle performance dell’economia cinese.
La fine delle politiche “zero-Covid” non è bastata: la ripresa degli scambi, il ripristino delle catene della fornitura, la ripartenza del flusso turistico avevano fatto crescere tutti gli indicatori nella prima parte dell’anno ma, nelle ultime settimane, l’economia cinese ha dato segni di affaticamento, le dinamiche del credito in maggio sono state al di sotto delle previsioni.
Tonico il settore dei servizi, debole la manifattura e nonostante i segnali di recupero registrati nella prima parte dell’anno, non migliorano le condizioni del settore immobiliare. Il real estate vale circa un terzo dell’economia cinese, migliaia di persone hanno sottoscritto contratti di acquisto, hanno pagato e hanno visto fallire le società di costruzione, gli analisti ritengono che la riduzione del tasso “reverse repo” sia insufficiente e che nuovi allentamenti monetari siano possibili nei prossimi giorni.
Mercoledì è stata la volta della Fed. La banca centrale americana ha preso una pausa dopo dieci aumenti consecutivi, ma è una pausa da falco, le previsioni dei membri del Board, raccolte nel consueto diagramma a pallini, proiettano altri due aumenti di tassi nei prossimi mesi. L’asticella del tasso terminale si è alzata di mezzo punto, il nuovo intervallo di arrivo è 5,5%-5,75%.
La marcia della Fed verso l’obiettivo del 2% prevede nuovi aumenti nella seconda metà dell’anno che, secondo Powell, saranno ben sopportati da una economia proiettata a suo dire verso l’atterraggio morbido.
Non ci sono state sorprese a Francoforte. La Banca Centrale Europea ha mantenuto fede a quanto aveva lasciato intendere e ha disposto il previsto aumento di 25 punti base del tasso di riferimento. Un ulteriore rialzo a luglio è “molto probabile”, dopodiché si vedrà.
Nell’Eurozona l’inflazione è diminuita dal picco di oltre il dieci per cento a poco sopra il sei percento, una discesa marcata ma ancora lontana dal 2% gradito dalla banca centrale. Gli economisti della BCE hanno anche aggiornato al rialzo le attese di inflazione e al ribasso quelle della crescita.
Se l’inflazione di base si manterrà nel sentiero di lenta diminuzione e se davvero le performance dell’economia dell’area euro saranno modeste, diventerà più probabile una pausa in settembre e i mercati non crederanno alle dichiarazioni di Lagarde.
L’ultima carta del poker è quella della Banca del Giappone, unica banca delle economie avanzate che in splendida solitudine mantiene i tassi sotto lo zero.
La Bank of Japan resta in controtendenza rispetto al generale movimento dei tassi al rialzo: la settimana precedente avevano alzato i tassi le banche centrali di Canada e Australia, la settimana prossima si riunirà la Bank of England: il poker potrebbe diventare una scala reale.
Il neogovernatore Kenzo Ueda si muove con gradualità, nonostante l’aumento delle pressioni sui prezzi la decisione di confermare la politica monetaria ultra-allentata era attesa, così come il mantenimento del controllo della curva, i rendimenti delle obbligazioni a dieci anni si muoveranno di 0,5 punti percentuali al di sopra o al di sotto dello zero.
Restano dunque inalterate le condizioni che hanno alimentato la spettacolare performance del Nikkei 225, tassi di interesse bassissimi, economia solida, valuta debole; è tornata l’inflazione, crescono gli acquisti dei consumatori e tornano i turisti stranieri, soprattutto cinesi. D’altro canto, dopo un rally di mesi le valutazioni delle società giapponesi sono diventate care.
Nostro malgrado, il poker di banche non vince nessuna posta: i numeri contraddittori sulla qualità della crescita preludono a uno scenario ancora marcato dalla volatilità. Nel breve periodo, in assenza di informazioni negative, il vento continuerà a soffiare nelle vele dei mercati azionari ma nel medio termine le questioni sono più complesse.
Le banche centrali dovranno venire a patti con il rallentamento della crescita e con la vischiosità dell’inflazione. Le conferenze stampa di Powell e Lagarde non sono state di aiuto, il “data depending” ha sostituito la “forward guidance” e oggi non ne sappiamo più di prima, sappiamo però che la storia economica è lastricata di economie trascinate verso il basso da errori di politica monetaria.
La difficoltà, e l’arte, del banchiere centrale è prendere decisioni su dati ex-post sapendo che le sue decisioni avranno effetto con mesi di ritardo. L’inasprimento monetario del 2022 è stato il più intenso e veloce della storia monetaria recente, più brutale anche della storica stretta di Paul Volcker negli anni Ottanta. L’atterraggio morbido evocato da Powell è tutt’altro che scontato e imprese e famiglie hanno bisogno di tempo per adattarsi a un regime di costo del denaro strutturalmente più caro.
L’inversione della curva dei rendimenti è un segnale che nulla dice su timing e intensità del rallentamento ma che in passato ha costituito un freno al mercato azionario.
Sono due le condizioni che suggeriscono cautela nel medio periodo, il nuovo contesto inflazionistico e la diminuzione del sostegno monetario delle banche centrali: la diminuzione degli stimoli monetari rende più vulnerabili mercati assuefatti a decenni di denaro facile.
Come i banchieri centrali, anche gli investitori hanno bisogno di tempo, per vedere meglio, per capire meglio.
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