Marx scrive nel capitolo quindicesimo, del libro terzo, relativo allo sviluppo delle contraddizioni intrinseche alla legge della caduta del saggio di profitto: “D’altro lato in quanto il saggio di valorizzazione del capitale complessivo, il saggio del profitto, è lo stimolo della produzione capitalistica (come la valorizzazione del capitale ne costituiscono l’unico scopo), la sua caduta rallenta la formazione di nuovi capitali indipendenti e appare come una minaccia per lo sviluppo del processo capitalistico di produzione; favorisce infatti la sovrapproduzione, la speculazione, le crisi, un eccesso di capitale contemporaneamente a un eccesso di popolazione”.
Il fenomeno si innesca proprio con la relazione tra la caduta del saggio del profitto, le crisi economiche e la sovrapproduzione di capitali, variabili che – non trovando ambiti sufficientemente remunerativi nella produzione – virano verso la speculazione, creando capitale fittizio e contribuendo alla formazione di bolle speculative il cui unico approdo è l’esplosione del sistema finanziario con tutte le ricadute del caso sull’economia reale.
La storia economia relativamente recente ci indica che, a partire dal 1982 e fino al 1998, i saggi del profitto nei Paesi di vecchia industrializzazione (Usa, Giappone, Francia, Inghilterra, Germania e Italia) sono aumentati ma non sono cresciuti a sufficienza rispetto al picco negativo degli inizi degli anni Ottanta laddove, secondo i dati riportati da quasi tutti gli analisti, tra il 1965 e il 1982, negli Usa ma con piccole difformità di ordine temporale e di intensità anche negli altri paesi dell’allora G7 si è avuta una formidabile caduta del saggio medio del profitto, pari al 50-53%; nei due decenni successivi si è avuto un consistente recupero e poi una ulteriore ricaduta.
In termini percentuali, nel primo periodo considerato si è passati da un saggio medio del profitto del 24% al 12%; nel secondo è risalito al 19% per poi ridiscendere al 14%. Ci si è trovati, quindi, di fronte ad un contenimento della caduta che conferma la validità della legge della caduta del saggio del profitto indicata per l’appunto come tendenziale: si esprime sul lungo periodo all’interno del quale si possono verificare fasi, più o meno lunghe, di recupero e di ricaduta a seconda delle correzioni che temporaneamente il capitale pone in essere, e del livello di consistenza della lotta di classe.
Le fasi di recupero sono state in buona parte “gonfiate” da una serie di fattori finanziari che il capitalismo, soprattutto dagli anni Novanta in poi, è stato costretto a mettere in atto per dilazionare nel tempo la deflagrazione delle sue contraddizioni che, ben lungi dall’essere superate, si sono ripresentate virulente, mettendo sul lastrico milioni di lavoratori, bruciando in poche settimane miliardi di capitale fittizio, creando le condizioni per l’emergere di tensioni sociali e del rischio di ulteriori guerre per la conquista dei mercati fondamentali, da quello della materie prime a quello energetico, da quello finanziario a quelli della forza lavoro a basso prezzo, e generando lo spaventoso spettro di una maggiore e generalizzata pauperizzazione.
Ed il capitalismo ha reagito mettendo in atto una serie di misure con lo scopo di opporsi a quello che di fatto era una sorta di cancro che metteva in seria difficoltà i meccanismi di creazione del plusvalore e, quindi, della valorizzazione del capitale rendendo sempre più difficoltosa la profittabilità dei capitali nell’economia reale. Questo non solo perché il fenomeno restringeva i margini di profitto per ogni fase di produzione ma anche perché rendeva problematico il processo di accumulazione favorendo una sovrapproduzione di capitali che, non trovando margini di profittabilità sufficienti nell’ambito della produzione, erano costretti a prendere la strada della speculazione.
È, quindi, la crisi derivante dalla caduta del saggio medio del profitto che ha posto in essere le ‘necessarie’ risposte del capitale. Non a caso il cosiddetto neoliberismo nasce in quegli anni e la deregulation, che ne è stata la spina dorsale, non ha fatto altro che accompagnarne il cammino sulla rotta del tentativo di recupero del ‘profitto perduto’ sulla scorta di tre grandi direttrici:
- attacco alla forza lavoro sul salario diretto, indiretto, sui contratti, sui ritmi e sull’intensità di sfruttamento
- decentramento produttivo verso le aree dove il costo della forza lavoro era ed è minore fino a 10-15 volte
- finanziarizzazione della crisi
La prossima crisi economica, già forzosamente in atto, collegata e successiva alla pandemia in corso, e che va a sovrapporsi a quella del 2008 i cui effetti sono ancora visibili nell’economia reale, di fatto “costringerà” nuovamente il capitale ad un’ulteriore accelerazione dei meccanismi di autoriproduzione e di profittabilità.
Il coronavirus sta solo svolgendo la funzione di uno spillo che buca la bolla di capitale fittizio, accelerando lo sviluppo di una crisi già matura. La crisi da sovrapproduzione di capitale distrugge le forze produttive e questa potrà trasformarsi in epidemia sociale con riduzioni salariali, licenziamenti di massa e nuovi tagli alle spese sociali.