Rimpatriare i marchi storici: la proposta di Unimpresa per salvare il made in Italy

Nel 2024 operazioni per 73 miliardi: 24 miliardi all’estero. Urgente una norma fiscale per riportare in Italia i brand venduti

La svendita silenziosa del nostro patrimonio industriale

Il made in Italy non è solo un’etichetta: è il frutto di una tradizione produttiva che affonda le radici nel sapere artigianale tramandato nei secoli. Dalla moda al design, fino all’agroalimentare, ogni marchio storico racconta una storia fatta di qualità, creatività e innovazione. Ma negli ultimi decenni, molti di questi marchi sono stati ceduti a investitori stranieri, privando l’Italia non solo del controllo economico, ma anche del suo know how.

Secondo Unimpresa, nel 2024 il valore complessivo delle operazioni di fusione e acquisizione in Italia ha raggiunto i 73 miliardi di euro, in crescita del 13% rispetto al 2023. Di questi, ben 24 miliardi riguardano marchi italiani venduti all’estero, spesso a fondi di private equity internazionali. Tra i casi più noti ci sono Bialetti, oggi in mano a capitali cinesi, e La Perla, finita sotto il controllo di un manager americano.

Il rischio di perdere identità, occupazione e innovazione

«Stiamo assistendo a uno svuotamento della filiera produttiva italiana», denuncia Marco Salustri, consigliere nazionale di Unimpresa. «Il trasferimento dei marchi all’estero comporta la perdita di competenze, di occupazione e di un pezzo fondamentale della nostra identità industriale e culturale».

Eppure, sottolinea Salustri, nessuna normativa fiscale ha mai veramente incentivato il rientro dei brand in mani italiane. La legge 206 del 2023, che tutela i marchi registrati da almeno 50 anni, è un primo passo ma non basta.

Una norma fiscale per il rimpatrio dei marchi

Per questo Unimpresa propone un intervento strutturato, con tre misure fiscali concrete:

  1. Agevolazioni all’accesso al credito, anche con garanzia statale, per favorire l’acquisto o il riacquisto dei marchi;
  2. Riduzione del cuneo fiscale per almeno cinque anni a favore delle aziende che assumono personale dedicato alla produzione connessa al marchio;
  3. Sgravi fiscali proporzionali alla quota societaria del marchio riacquisita in Italia.

Una simile norma non solo restituirebbe centralità all’imprenditoria nazionale, ma porterebbe anche benefici all’erario grazie all’aumento della base imponibile e degli utili redistribuiti in Italia.

Verso un made in Italy che resta in Italia

Il settore della moda e del lusso è oggi il più esposto a queste dinamiche, con un valore di mercato atteso di 21,6 miliardi di dollari nel 2025. L’acquisizione di Versace da parte di Prada, per 1,4 miliardi di dollari, rappresenta un’eccezione virtuosa, un segnale che qualcosa può cambiare. Ma da sola non basta.

Serve un cambio di passo, una politica fiscale che investa sull’identità produttiva italiana, proteggendo i marchi, rilanciando la manifattura, valorizzando il capitale umano e restituendo al made in Italy la sua vera casa: l’Italia.


Domande e risposte

1. Cosa propone Unimpresa per i marchi storici?
Una norma fiscale per favorire il rimpatrio dei marchi italiani ceduti all’estero.

2. Qual è il valore del mercato M&A in Italia nel 2024?
73 miliardi di euro, con 24 miliardi relativi a operazioni all’estero.

3. Quali settori sono più esposti alla vendita di marchi?
Moda, lusso, pelletteria, agroalimentare e design.

4. Chi è Marco Salustri?
Consigliere nazionale di Unimpresa, promotore della proposta.

5. Che benefici fiscali si propongono?
Sgravi sul credito, riduzione del cuneo fiscale, tassazione agevolata.

6. Cosa prevede la legge 206 del 2023?
Tutela dei marchi registrati o usati da oltre 50 anni.

7. Quali marchi sono passati in mani straniere?
Bialetti, La Perla, tra i più noti.

8. Perché è importante il rimpatrio dei marchi?
Per salvaguardare occupazione, identità culturale e know how.

9. Ci sono esempi virtuosi?
Sì, l’acquisizione di Versace da parte di Prada nel 2025.

10. Qual è il rischio senza interventi?
La dispersione della filiera produttiva italiana e la perdita di valore economico e simbolico.

Commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *