PROCESSO ALLA METODOLOGIA DI RICERCA CLINICA: COSA È CAMBIATO CON IL COVID-19?
A cura del Centro per la Lotta contro l’infarto – Fondazione Onlus
Stiamo ancora navigando nell’incertezza di una pandemia virale irrisolta con un doppio handicap acquisito, subito evidente: una impreparazione globale ad affrontare coordinatamente un rischio infettivo letale e la necessità di non affondare in una crisi economico-sociale ingestibile. Nel terzo anno di pandemia si è aggiunta una guerra in Europa che sta rischiando di trasformarsi in un disastro senza confini, generando come effetto collaterale una crisi mondiale alimentare per carenza di grano, non esportabile dalle zone impegnate militarmente, produttori di rilevanza mondiale.
In questo contesto di insicurezza e instabilità anche la ricerca scientifica clinica è stata sconvolta. Nell’aprile 2021 ClinicalTrials.gov segnalò la sospensione di 1773 studi registrati. In realtà il processo alla ricerca clinica tradizionale è già stato fatto molte volte con un insieme di critiche convenzionali ma per lo più vere: grandi studi per obiettivi piccoli, che interessano prevalentemente chi li paga, con disegni rigidi, durata e numerosità definite a priori, lenti, macchinosi e sempre più costosi. Per lo più finanziati da aziende, e gestiti da CRO. Trial condotti in popolazioni non sempre rappresentative, soprattutto oggi a fronte della estensione geografica crescente delle reti di arruolamento, con end-point per lo più compositi con componenti trainanti sussidiarie e operatori neutri, non coinvolti nel processo culturale che un trial dovrebbe invece attivare.
Questa realtà consunta e manifestamente improponibile nella aggressiva realtà del momento, venne sostituita da alcune reti di centri rapidamente strutturate a livello nazionale da ricercatori esperti con il supporto di finanziamenti pubblici, Fondazioni, Charities o aziende, oppure da reti internazionali preesistenti rifocalizzate sul COVID-19.
Metodologicamente, emersero alcuni approcci anche dettati dal contesto di una Medicina vuota di risorse appropriate. Tra questi il modello adattativo che è stato inizialmente prioritario, e il modello pragmatico che l’ha accompagnato poi. Li esamineremo rapidamente. Inoltre la combinazione della necessità di limitare i rapporti interpersonali, la frequente impenetrabilità degli ospedali insieme al blocco delle comunicazioni fisiche tra luoghi diversi ha determinato il ricorso all’uso della telemetria e a una intensificazione dei rapporti via e-mail sia per scambio di informazioni, invio di farmaci o di device fino alle visite virtuali. L’embrione degli attuali trial pragmatici. La randomizzazione si è mantenuta in tutti gli studi minimamente strutturati.
La ricerca clinica si riorienta
Disegni adattativi
I disegni degli studi adattativi si basano su principi del tutto diversi da quelli convenzionali. Comunque, il profilo generale del disegno può svilupparsi sia in trial di rete con un centro coordinante unico, che con un modello combinato costituito da alcuni centri esperti che testano nuove molecole o nuove applicazioni di farmaci noti in un numero limitato di pazienti selezionati, ne verificano la potenziale utilità e sicurezza, e se promettenti li orientano verso reti collegate che li inseriscono in Master Protocols e li testano in casistiche adeguate di real world. Ogni braccio del trial ha storia propria, orientata dall’osservazione clinica e analisi ad interim periodiche dei dati raccolti. Il farmaco risultato efficace entra a far parte della terapia raccomandata o usual care, viene quindi usato in tutti i successivi pazienti arruolati, controlli inclusi. Per dare un’idea della versatilità del modello adattativo, possono essere ricordati due disegni ampiamente utilizzati, tra loro molto diversi. Uno è il cosiddetto “umbrella”, finalizzato alla verifica comparativa simultanea di vari farmaci, allocati in bracci distinti del trial, nei confronti di una malattia. Ad esempio il COVID 19. L’ altro è il “basket”, nel quale un farmaco con caratteristiche specifiche nei confronti di un processo fisiopatologico viene usato in pazienti con malattie diverse che implicano più o meno rilevantemente l’attivazione di quel processo.
Quindi il modello adattativo è flessibile, qualità essenziale in una situazione pandemica con molti studi simultanei centrati su obiettivi simili. Però gli enti regolatori non perdono di vista un punto chiave: l’integrità dello studio. Innanzitutto le possibili modificazioni del disegno devono essere previste nel protocollo (“prospectively planned”), motivate dalla previsione di diverse evoluzioni possibili dello studio e applicabili nel caso queste si verifichino. Inoltre la variazione del disegno deve essere fondata su dati emersi in analisi ad interim dello studio (“based on accumulating data from subjects in the trial”).
Come accennato, alcuni studi adattativi sono organizzati con un centro coordinatore che sviluppa il disegno e gestisce lo studio. Un esempio è il Randomized Evaluation of COvid-19 thERapY RECOVERY trial (NCT04381936) condotto dall’Università di Oxford al quale gli ospedali di tutto il Regno Unito hanno compattamente aderito; 3 mesi dopo l’avvio dello studio erano già stati arruolati 12,000 pazienti COVID). Oggi, (maggio 2022) il numero dei pazienti arruolati da 195 centri in 6 paesi supera i 48.000. Almeno 4 i farmaci testati simultaneamente durante tutto il corso dello studio, con analisi ad interim per verificare eventuali risultati raggiunti o, più frequentemente, raggiunta prova di futilità. Molti fallimenti, qualche parziale successo. Ad oggi Il RECOVERY ha testato 18 terapie; attualmente in studio sono: Empagliflozin, Sotrovimab, Molnupiravir, Paxlovid e desossimetazone a dosi elevate vs dose standard.
Un altro attore da menzionare nel contesto della tipologia dei trial ampi e semplici con disegno adattativo è il SOLIDARITY, condotto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) con circa 15.000 pazienti arruolati da 600 Ospedali di 52 paesi. Purtroppo finora non ci sono stati esiti positivi. Oggi (maggio 2022) vengono testati farmaci immuno-modulatori in fase 3-4: l’infliximab, un bloccante del tumor necrosis factor alpha (TNF-α), l’imatinib, un anticitochinico, e l’artesunato, un farmaco antimalarico con potenziali effetti antiinfiammatori.
Disegni adattativi compositi
Un’altra formula strutturale di trial adattativi ampiamente utilizzata riguarda la ricerca cooperativa organizzata in piattaforme adattative con obiettivi comuni a livello nazionale o internazionale, ma operativamente indipendenti. Le accenniamo brevemente. Una è Britannica, l’ACcelerating COVID-19 Research & Development platform (ACCORD, EudraCT 2020-001736-95) una piattaforma governativa di ricerca clinica fondata ad hoc dal Department of Health and Social Care (DHSC) e dalla UK Research and Innovation (UKRI) e gestita da quest’ultima in un programma accelerato di ricerca di terapie efficaci del COVID-19. Potenziali farmaci anti-COVID-19 vengono sottoposti a percorsi esplorativi di fase 1-2 in alcune Unità di terapia intensiva cui segue (seamless) una fase 2-3 per i farmaci promettenti in popolazioni più numerose in contesti di clinica pratica. Anche aziende private di settore partecipano a questo sforzo cooperativo medico-sociale. Gli studi TACTIC (NCT04393246), e CATALYST (ISRCTN40580903) vengono condotti in stretta alleanza con la piattaforma ACCORD.
Uno scenario collaborativo simile è stato sviluppato negli USA con l’Accelerating COVID-19 Therapeutic Interventions and Vaccines (trial ACTIV 1-4, NCT04518410). Nell’aprile 2020 il NIAID (NIH) annunciava la partnership pubblico-privata ACTIV riguardante 4 aree di Fast Track Research. E’ un platform trial randomizzato, controllato di fase II e III che ha valutato e valuta farmaci attivi sulla risposta immune o nel controllo dell’attività virale. Un aspetto rilevante della prospettiva ACTIV è l’attenzione ai pazienti non o non più ospedalizzati. Una importante limitazione di tutta la ricerca clinica COVID è stata la concentrazione sulla fase acuta dell’infezione, per cui il follow-up terminava pressoché sistematicamente con la dimissione ospedaliera o al canonico 28° giorno. Oggi è chiaro che l’infezione è sistemica e le sue conseguenze nel lungo tempo sono frequenti e possono diventare rilevanti. L’“Adaptive Platform Treatment Trial for Outpatients with COVID-19” (ACTIV 2), ne è un esempio.
Trial Virtuali (Pragmatici)
Sono pubblicati numerosi trial che si dichiarano pragmatici e rivoluzionari, ma questo modello di trial randomizzato non è nuovo. In realtà il termine pragmatico può venire usato per esprimere due concetti diversi. Uno è il trial pratico, avvicinabile ai migliori trial storici con protocolli lineari, semplici, un obiettivo definito e clinicamente importante, dataset non ridondanti, gestione attenta del protocollo, con molta attenzione agli endpoint clinici e ai tempi del follow-up. Altro sono i trial “remoto o siteless o patient-centered o virtuale o digitale” tutti denominati pragmatici, perché tutti accomunati da una nuova caratteristica metodologica, la conduzione interamente digitale dello studio. La virtualità viene considerata il massimo della semplificazione (da qui il “pragmatico”) e quindi della ottimizzazione del disegno, perché implica un sostanziale (o totale) disimpegno vicendevole medico-paziente, col quale il collegamento è basato su interazioni informatiche dirette e sulla analisi periodica dei percorsi sanitari informatici – gli Electronic Health Recordings (EHRs), includenti ogni evento clinico a prescindere dall’arruolamento nello studio, quindi anche gli endpoint clinici previsti nei trial. Il problema è che la condizione operativa essenziale è l’esistenza e completezza di una cartella clinica elettronica strutturata individuale, l’EHR appunto (o il Fascicolo Sanitario Elettronico 2 – [FSE2] quando sarà operativo) – che raccolga tutta la vita sanitaria di ogni soggetto arruolato. Questo presuppone, a sua volta, una digitalizzazione universale nei paesi nei quali lo studio viene condotto, dato che la cartella deve venire alimentata da qualunque struttura sanitaria venga a contatto con il soggetto. E’ chiaro che non stiamo parlando dell’Italia, ma di alcuni paesi del centro-nord Europa, e del nord-America. La Cina sta procedendo a una digitalizzazione forzosa della Sanità, almeno in alcune parti del paese.
Benché questa “pragmatizzazione” della ricerca clinica sia stata accelerata dagli eventi recenti, il processo è in corso da più di un decennio, quanto meno negli USA, dove le Istituzioni di riferimento per la ricerca clinica si erano consensualmente attivate da tempo. Comunque, anche il mondo dei trial sta migrando (precipitando?) nel digitale con, per ora, solo sporadiche verifiche di quanto si può perdere oltre a ciò che si può guadagnare. Ad esempio, occorre che i sistemi EHR siano sistematicamente verificati in ogni paese (o regione) che li usa come fonte di informazione certa. D’altra parte i principi della Medicina di Precisione, insieme alla progressiva, auspicabile, fenotipizzazione delle sindromi complesse non si vede come siano compatibili con l’approccio clinico molto inclusivo utilizzato e raccomandato negli attuali trial pragmatici.
Il nuovo Fascicolo Sanitario Elettronico2 (FSE2), il nostro EHR system!
In pratica, cos’è il FES2? Uno strumento che raccoglie tutti i dati di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione di ogni cittadino, generati nel corso della vita, anche da più strutture sanitarie, in Italia o all’estero (in rapporto all’interoperabilità che il sistema raggiungerà). Vi dovranno confluire tutti i documenti sanitari: visite mediche, esami bioumorali e tecnologici con i rispettivi referti, verbali di Pronto Soccorso, documentazione di ogni ricovero ospedaliero, terapie prescritte, percorsi terapeutici extraospedalieri, co-morbidità, vaccinazioni, ecc…per tutta la vita, e in attesa di includere genotipo e microbioma.
Secondo il PNRR (dal quale provengono i fondi) l’insieme del nuovo Sistema Sanitario, che accoglierà il FSE2, dovrà essere a regime entro il 2026. L’AGENAS sarà responsabile della gestione della struttura informatica dell’intero ECOsistema ed il finanziamento complessivo previsto sarà di circa 20 miliardi (40% al Sud), €628 milioni per il FES2. Nell’insieme il FSE2 fornirà in tempo reale l’epidemiologia dettagliata (quindi anche regionale) del paese, l’unico strumento che può realmente consentire il governo politico intelligente (perché informato) della sanità regionale e nazionale. I dati, se completi e interoperabili, con il supporto dell’intelligenza artificiale in quanto digitali, saranno materiale eccellente per la ricerca scientifica sanitaria, non solo epidemiologica. Punto focale è stato il considerare l’informazione sanitaria come elemento strutturale della salute e quindi, tecnicamente, della Sanità. La modernizzazione del sistema parte da qui. La traccia conclusiva negli USA è stata il Health Information Technology for Economic and Clinical Health Act che ha legato agli aspetti sanitari quelli economici con una conseguente pressocché universale adozione degli EHRs certificati.
COMPLICANZE CARDIACHE DELLA VACCINAZIONE COVID-19;
ORA NE SAPPIAMO DI PIÙ
Vaccinazione anti-COVID e ipertensione arteriosa
In una Research Letter pubblicata su Hypertension, Meylan e coll. hanno descritto per la prima volta una serie di 9 pazienti, 8 dei quali affetti da ipertensione arteriosa ben controllata dal trattamento, sottoposti a vaccinazione con Pfizer (Comirnaty) o Moderna (Spikevax). Nelle ore o giorni successivi alla vaccinazione, la pressione arteriosa è aumentata in modo variabile da individuo a individuo, fino a livelli di 220 mmHg per la sistolica, e fino a 115 mmHg per la diastolica. Successivamente, sono stati pubblicati i risultati relativi a 287 soggetti sottoposti a vaccinazione anti-COVID-19, nei quali la pressione arteriosa è stata misurata all’interno di un intervallo compreso tra i 15 minuti prima e 15 minuti dopo la vaccinazione. La vaccinazione si è associata ad un rialzo superiore a 40 mmHg della pressione arteriosa differenziale nel 29% dei soggetti.
Ovviamente, questi risultati non escludono la possibilità che l’incremento pressorio riportato possa essere imputabile a fattori emotivi legati alla vaccinazione. Risultati interessanti stanno emergendo, sia pure con tutte le cautele del caso, dalle analisi di grossi database amministrativi. Karla Lehmann ha analizzato il database EudraVigilance dell’EMA. Come è noto, si tratta di un database che riporta tutte le segnalazioni, trasmesse in forma anonima, di eventi avversi in associazione con le vaccinazioni anti-COVID. Non si tratta, dunque, di un trial clinico. Non è possibile identificare i singoli pazienti e non è possibile valutare tutti i potenziali fattori che potrebbero interferire sull’associazione tra vaccinazione ed ipertensione. Un incremento acuto dei valori di pressione arteriosa (‘crisi ipertensiva’) era comunque presente in ben 6130 segnalazioni, pari al 2.9% di tutte le somministrazioni del vaccino Pfizer, con ben 29 decessi (0,47%) tra i soggetti per i quali era partita la segnalazione di crisi ipertensiva. Purtroppo, non erano noti i valori pressori misurati prima e dopo la vaccinazione, ma si ritiene che la segnalazione di ‘crisi ipertensiva’ abbia riguardato solo i soggetti con reale e considerevole incremento pressorio. Sono seguite le segnalazioni di ‘tachicardia’ (n = 5788 con lo 0.7% di decessi) e aritmie (n = 1809 con il 4.1% di decessi). Si sono anche verificati 1719 casi di arresto cardiaco dopo vaccinazione Pfizer (0,8% di tutte le dosi) e tra questi soggetti si è verificato il decesso nel 92% dei casi (1575 soggetti).
Meta-analisi di studi osservazionali. Abbiamo recentemente completato una meta-analisi di studi osservazionali, pubblicati su riviste ‘peer-review’ entro il 22 Febbraio 2022 e senza limitazioni di lingua, che hanno riportato un incremento pressorio clinicamente importante come evento potenzialmente avverso del vaccino anti-COVID.2 Gli studi sono stati selezionati attraverso MEDLINE, Scopus, Web of Science, e CINHAL, usando le parole chiave “SARS-CoV-2”, “COVID-19”, “2019-ncov”, “coronavirus”, “blood pressure”, “hypertension”, e “adverse events”. Sei studi sono entrati nell’analisi finale, per un totale di 357.387 soggetti e ben 13.444 casi di incremento dei valori pressori associato alla vaccinazione. Dopo esclusione dei due studi ‘outliers’ in entrambe le direzioni, l’incidenza di importante incremento pressorio dopo vaccinazione è risultata del 3,2% (intervallo di confidenza al 95%: 1.62-6.21). In particolare, l’incidenza di urgenze ipertensive o ipertensione in stadio III è stata dello 0,6%.
Come spiegare l’ipotesi di rialzo pressorio in associazione alla vaccinazione anti-COVID? I dati finora ottenuti dovrebbero essere letti come ‘hypothesis generating’ e non certo come ‘certezze’.
Possibili meccanismi di base. Un aiuto nella comprensione del fenomeno ‘ipertensione da vaccino’ può venirci dalla fisiopatologia. Come è noto, i recettori ACE2, situati prevalentemente nei polmoni, vasi, intestino, cuore e testicoli, staccano l’amminoacido fenilalanina dall’angiotensina II (composta da 8 aminoacidi), dando quindi origine all’angiotensina, composta da 7 amminoacidi.
L’angiotensina esercita importanti effetti del tutto opposti a quelli dell’angiotensina II, ossia induce vasodilatazione, inibizione dell’infiammazione ed inibizione della trombosi. L’integrità strutturale e funzionale dei recettori ACE2 è dunque estremamente importante per le funzioni vitali. La ‘spike protein’ del virus Sars-CoV-2, la cui sintesi viene indotta dai vaccini, oltre a generare una risposta immune da parte del sistema immunitario, va a legarsi con i recettori ACE2, inducendo la loro migrazione (‘internalizzazione’) verso l’interno della cellula. Ne consegue, in ogni caso, una carenza di attività ACE2 sulle superfici cellulari, e pertanto una relativa carenza di angiotensina con relativo eccesso di angiotensina II. Tale eccesso di angiotensina II, non bilanciato dall’ angiotensina, potrebbe essere responsabile, almeno in parte, non solo dei rialzi pressori, ma anche degli eventuali fenomeni trombotici ed infiammatori secondari alla vaccinazione, oltre che alla stessa infezione daSars-CoV-2.
Vaccinazione anti-COVID e miocarditi-pericarditi
Già le prime segnalazioni comparse in letteratura sulle miopericarditi come possibili effetti indesiderati della vaccinazione anti-COVID avevano mostrato la rarità e la sostanziale benignità del fenomeno. l pazienti presentano generalmente dolore toracico, di solito insorgente qualche giorno dopo l’inoculazione della seconda dose di vaccino a mRNA, sopraslivellamento ST, aumento dei livelli di troponina sierica, proteina C-reattiva e peptide natriuretico atriale. La frazione di eiezione è <50% in una piccolissima frazione di pazienti. In quelli sottoposti a risonanza magnetica è possibile riscontrare ‘late gadolinium enhancement’ CHE COSA E’? ed edema. Abbiamo pochissimi dati relativi alla biopsia miocardica, che di solito mostra qualche infiltrato flogistico con cellule T e macrofagi, eosinofili e rare plasmacellule, ma in parecchi casi questa è risultata normale. La risoluzione è generalmente completa e spontanea entro qualche giorno. Solo nei soggetti con sintomi persistenti sono indicati farmaci antiinfiammatori non steroidei, colchicina e/o steroidi. Ovviamente, le misure di supporto circolatorio sono indicate in caso di importante peggioramento della funzione contrattile.
Epidemiologia. I colleghi Israeliani hanno creato un efficiente sistema di monitoraggio degli effetti della vaccinazione anti-COVID, segnatamente del vaccino Comirnati (Pfizer). Circa 884.000 soggetti vaccinati (‘casi’) sono stati messi a confronto con circa 884.000 soggetti non vaccinati (‘controlli’) omogenei per età, sesso, stato socioeconomico, etc). Inoltre, circa 173.000 soggetti positivi al COVID (‘casi’) sono stati messi a confronto con circa 173.000 soggetti negativi (‘controlli’). Tutti sono stati seguiti per circa 21 giorni di follow-up sia dopo la prima che dopo la seconda dose di vaccino (totale 42 giorni). Il quesito di fondo è stato il seguente: nell’ipotesi che la vaccinazione anti-COVID sia effettivamente responsabile diretta di casi di miocardite e pericardite, quanti casi in più di miocardite e pericardite si verificano tra i soggetti vaccinati rispetto ai non vaccinati, così come tra i soggetti positivi al COVID rispetto a quelli negativi al COVID? Si sono verificati solo 3 casi di miocardite (e 1 solo caso di pericardite) in più su 100.000 soggetti tra i vaccinati rispetto ai non vaccinati (entrambi i gruppi negativi al COVID), così come 11 casi di miocardite ed 11 di pericardite in più tra i positivi al COVID rispetto ai negativi al COVID (entrambi i gruppi non vaccinati). In altri termini, il vaccino produce un aumento insignificante di casi di mio-pericardite (1-3 casi su 100.000) mentre la ‘malattia’ COVID, tra i non vaccinati è responsabile di un aumento molto maggiore (11 casi su 100.000) dei casi di mio-pericardite.
Un’altra analisi dei dati Israeliani ha esaminato 54 casi di miocardite su 2,5 milioni di soggetti seguiti per 42 giorni complessivi. L’incidenza globale di miocardite (aggiudicata da cardiologi secondo criteri standard) è stata di 2,1 per 100.000 (4,2 nei maschi; 0,2 nelle femmine). In particolare, è stata pari a 5,5 casi per 100.000 tra i 16 e i 29 anni ed a 1,1 casi per 100.000 dai 30 anni in su. Il picco massimo di casi di miocardite è stato di 10,7 casi per 100.000 tra i soggetti maschi di età 16-29 anni. In generale, l’incidenza di miocardite è stata maggiore dopo la seconda dose (1,61/100.000/21 giorni) rispetto alla prima dose (0,51/100.000/21 giorni). Tra questi 54 casi di miocardite, solo 1 paziente ha presentato shock cardiogeno ed un ulteriore paziente, già affetto da cardiopatia preesistente, è morto per cause imprecisate dopo la dimissione.
Altre analisi dei colleghi Israeliani hanno mostrato che l’eccesso di miocardite era concentrato essenzialmente nei primi 5-7 giorni dopo la seconda dose di vaccino, e nelle età più giovanili. In particolare, l’incidenza più elevata (tra 7 e 15 casi su 100.000) è stata riscontrata nei soggetti maschi di età compresa tra i 16 ed i 39 anni.
Altri studi eseguiti in diverse parti del mondo hanno sostanzialmente confermato questi dati.
Esistono anche importanti studi Europei. Ad esempio, 23.122.522 soggetti vaccinati con Pfizer (BNT162b2), mRNA-1273 (Moderna) e AZD1222 (Astra-Zeneca) in Danimarca, Svezia, Norvegia e Finlandia sono stati seguiti per 28 giorni di follow-up complessivi (dopo 1° e 2° dose). Ben 4.308.454 soggetti non vaccinati hanno rappresentato il gruppo di controllo. Vi sono state 1077 miocarditi totali. Anche questo studio ha confermato un lieve eccesso di incidenza di miocarditi tra i vaccinati rispetto ai non vaccinati (4-7 eventi in eccesso su 100.000 vaccinazioni con il vaccino Pfizer, e 9-28 eventi in eccesso con il vaccino Moderna). E’evidente che questo lieve eccesso va bilanciato rispetto agli enormi benefici del vaccino in termini di prevenzione delle gravi complicanze del COVID.
I vantaggi della vaccinazione sulla non vaccinazione in termini di ospedalizzazioni prevenute e di gravi complicanze del COVID-19 restano fuori discussione. Nella fascia di età più a rischio di miocardite da vaccino (12-29 anni), per ogni 100.000 vaccinati, a fronte di circa 4 casi in più di miocardite abbiamo 56 ospedalizzazione in meno, 13,8 ammissioni in terapia intensiva in meno e 0,6 decessi in meno. Non dobbiamo dimenticare di mettere a confronto diversi gruppi di soggetti (vaccinati contro non vaccinati, COVID contro non COVID) prima di trarre conclusioni sulla possibile associazione tra vaccinazione COVID e miocardite. Il tasso di miocardite in soggetti non affetti da COVID e non vaccinati non è zero, ma è pari a circa 0,33 casi per milione per giorno (98 casi su 296.377.727 giorni-persona), contro 0,78 casi per milione per giorno nei vaccinati (117 casi per 149.786.065 giorni-persona). Ciò equivale ad un aumento di 2,35 volte del rischio di miocardite in associazione con la vaccinazione (Rate Ratio 2,45 (1,10-5,02), ma con tasso di miocardite nel gruppo di confronto (non vaccinati) non pari a zero.
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